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Il bambino che disegnava parole (Giunti)

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Francesca Magni, Il bambino che disegnava parole, Giunti

Teo è Il bambino che disegnava parole  e la sua è una storia di dislessia.

Teo è un ragazzo intelligente e sensibile, ma qualche volta è in difficoltà, anzi troppo spesso, come se non tenesse più il passo con le richieste della scuola: perché rompe sempre le matite? Perché non sta mai fermo? Perché ci mette tanto a memorizzare? Perché alle volte sembra così… diverso?

Quella di Teo è la storia di una madre che scopre che le difficoltà del figlio, studente di terza media, non sono cattiva volontà, non sono errori educativi: hanno un nome, dislessia. Ma Il bambino che disegnava parole è anche molto più di questo, è la storia di come nasce un genitore:

esistono due forme di gravidanza, una per mettere al mondo un figlio, e una per mettere al mondo un genitore.

Francesca Magni, madre e giornalista, riversa prima sul blog la propria esperienza di “mamma imperfetta” alle prese con un figlio che ha qualcosa che “funziona” in modo diverso dalla media, poi la ripercorre nella forma narrativa più classica. Il libro nasce quando, fatta pace coi sensi di colpa e con le ferite del passato, si fa spazio la comprensione:

ogni storia è come una strada, deve seguire il suo percorso.

Così la sua storia, nel solco della personale esperienza, si allarga a racchiudere i segni di tante altre storie che si assomigliano. Qui si racconta di ogni madre e delle sue molte nascite, come ricorda la tripartizione del romanzo nei capitoli caos, forza, separazione: nasce una madre quando la pancia le cresce e nella metamorfosi ritornano a galla gli irrisolti del passato, nasce quando mette al mondo un figlio, nasce quando quel figlio appare “diverso” dall’attesa, nasce quando la madre impara un nuovo modo di parlargli, rinasce dopo ogni senso di sconfitta che rende accidentato il cammino di genitori, nasce quando dalla crisalide esce la farfalla, ed è un’altra separazione, la più difficile, forse.

Sono le pagine più belle quelle che narrano in punta di penna le correnti d’amore di una famiglia, che nodi imprevisti sembrano interrompere, finché il flusso energetico trova altri canali di trasmissione; è una storia d’ordinaria quotidianità raccontata con quel “tu” che amichevolmente ci interpella e ci mette a fianco a fianco nel percorso di crescita della protagonista e di tutti i membri della sua famiglia. Nella peculiarità di un figlio “difficile” e di una figlia che reclama con violenza la sua dose di attenzione, la famiglia rifiuta, s’interroga, si oppone, sempre guidata dal timone di una madre cocciuta e da Teo, bussola paradossale nel labirinto delle relazioni: la fatica, la sofferenza di un figlio sono, in realtà, un lume acceso per guardare nella cantina della casa, per fare ordine, per portare alla luce la verità.

Queste pagine belle sono soffocate in mezzo ad altre, più didascaliche, che vogliono spiegare il “dramma della dislessia” e l’”incomprensionepresunta della scuola, e la bravura di pochissimi insegnanti, pagine in cui si addossa alla scuola un compito che non può sostenere: la dedizione educativa, che la madre con fatica tributa al figlio, richiede un rapporto uno a uno, una conoscenza profonda e comunque sempre inesatta della sua personalità e dei suoi canali di apprendimento (non voglio chiamarli, come freddamente si usa, “modi di funzionare”: non siamo macchine, che una programmazione individualizzata può meccanicamente mettere in moto), un rapporto di affiancamento che potrebbe essere realizzato con altre risorse, con altri mezzi, di cui la scuola non viene dotata: il risultato è che, ancora una volta, la selezione è tra chi ha una famiglia attenta e culturalmente dotata come quella di Teo, che può supportarlo nel recupero delle tappe che una diagnosi tardiva gli ha fatto perdere e chi, privo di un paracadute familiare e senza che ne esista uno sociale vero e proprio, rimane comunque escluso, o al limite con un lasciapassare “ufficiale”, il tante volte citato “piano di studi personalizzato”, in realtà uno strumento standard che, da solo, non risponde alle difficoltà di apprendimento. La scuola resta così strozzata tra richieste divergenti: essere altamente formativa e allo stesso tempo garantire “il successo per tutti”, far raggiungere competenze di livello e supplire a carenze sociali, educative, psicopedagogiche. Il soccorso è affidato a tanti, tantissimi insegnanti di buona volontà che svuotano l’acqua dalla barca con secchi bucati: chi lavora nel mondo della scuola lo sa bene.

Il libro della Magni è scritto con font open source per la dislessia (dell’editoria per tutti avevamo scritto anche qui, su Youkid) e si propone anche l’ambizioso tentativo di costruire una guida tra le mille definizioni, nessuna esaustiva, sulla dislessia. Offre una panoramica sulla letteratura scientifica, cita siti di docenti sperimentatori di didattica alternativa, per esempio nell’apprendimento delle lingue classiche: è soprattutto alle superiori, infatti, che l’etichetta “dislessia” diventa una discriminante sociale, che separa chi può frequentare un percorso liceale da chi, per il suo “modo atipico di apprendere”, viene pregiudizialmente indicato come “inadatto” a tali studi. Per questo le Appendici finali sono un arricchimento non solo per genitori, ma anche per chi lavora nel mondo della scuola.

Infine, un mio suggerimento: di dislessia oggi si parla, sia nella narrativa fiction (vedi qui, sempre su Youkid) sia in film, più o meno recenti. Mi piace, però, ricordare un lavoro semisconosciuto, italiano, del lontano 1981: Mio figlio non sa leggere. Dal romanzo autobiografico di Ugo Pirro la Rai aveva prodotto una fiction, per la regia di Franco Giraldi. All’epoca, opera da veri pionieri.

 

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