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Tutto ha un’ombra meno le formiche

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Scuola elementare di scrittura emiliana per non frequentanti di Paolo Nori è uscito nel 2014 per le Edizioni Corraini.
Non è proprio un manuale, è più un mettere le carte in tavola parlando di scrittura.
Le tre carte che vanno giù per prime sono:
lo straniamento – la capacità e necessità della scrittura di allungare la visione, di rallentare il ritmo della percezione che automatizza la vita umana rendendola, come scrisse Sklovskij, inconsapevole;
la lingua dei semicolti, l’italiano dei semicolti che è un italiano, per così dire, straniato di suo;
una sedia: cosa serve per scrivere? hanno chiesto una volta a Charles Bukowski, e lui rispose, appunto, una macchina da scrivere e una sedia e aggiunse delle volte è difficile trovare la sedia.

Saper vedere le cose come fosse la prima volta; usare una lingua che ci appartiene nel profondo, che ha a che fare con una questione direi, proprio, di timbro; e avere il tempo e lo spazio per una sedia.

E anche se Nori ammette che per scrivere servono queste tre carte e che il lettore potrebbe dunque fermarsi a pagina 69 del libro, al punto in cui queste tre carte sono state giocate, le pagine che vengono dopo la pagina 69 raccontano di molte altre cose: di come leggere un libro, per esempio, non ci faccia sentire staccati dal mondo, ma dentro il respiro del mondo; di come scrivere porti a capire ciò che si pensa; di come tutto ha un’ombra meno le formiche. Questa è un citazione della lingua dei bambini conservata al Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia, una lingua che poi si metterà a studiare la lingua italiana a scuola.

E la scuola, forse è un po’ questo il mestiere che fa, di dare un tono alle nostre scritture, di insegnarci a scrivere in una lingua che non è esattamente la nostra lingua madre, una lingua dove non si arriva ma si giunge, dove non ci sono mamme ma madri, e non ci sono babbi ma padri, e non ci sono vecchi ma anziani, e non ci sono macchine ma autovetture, dove non si dice ‘Che ti venga un canchero’ ma ‘Vai al diavolo’, […] e mi è venuto da pensare che un lavoro come quello che fa il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, di conservare quelle scritture così belle, così poetiche e così strampalate, è un lavoro che meno male che c’è qualcuno che lo fa e forse, a pensarci, la cosa più difficile da fare, per chi vuole scrivere dopo aver studiato, è dimenticarsi, nel momento in cui scrive, tutto quello che ha studiato, fare proprio uno sforzo di dimenticanza che insieme allo sforzo di trovare la sedia è forse lo sforzo più grosso che bisogna fare, secondo me.

Scrivere dopo aver studiato significa dimenticarsi, nel momento in cui si scrive, di ciò che si è studiato; forse mi sbaglio, ma mi pare che Picasso, una volta, abbia dichiarato che aveva dovuto dimenticare tutto quello che aveva studiato nella vita per ricominciare a disegnare come quando era un bambino.
Ma non è che si dica, in entrambi i casi, che non si deve studiare. Credo che sia lo studio, anzi, che permette la consapevolezza dello sforzo che occorre dopo, per dimenticare il percorso della tecnica e approdare a una autenticità espressiva; è grazie alla tecnica, insomma, che è possibile mettere da parte la tecnica e iniziare a capire ciò che si pensa.
Dico questo perché non ci sia fraintendimento: la necessità di preservare e valorizzare la lingua dei bambini non implica l’assenza di un percorso formativo sul versante della lingua.
Chi insegna la lingua italiana alla primaria e alla secondaria inferiore ha un ruolo educativo molto prezioso, che agisce in profondità sulla crescita dei bambini e dei ragazzi; questo ruolo occupa uno spazio e se cerchiamo di osservare bene questo spazio, lo spazio occupato da chi insegna a leggere e a scrivere ai bambini e ai ragazzi, dovremmo comprendere il fatto che questo spazio è fatto, spesso, di tempo.
Se a scuola non esistono macchine, ma autovetture, la questione lessicale è per prima cosa una questione di tempo, ovvero di tempistica.
Dire a un bambino che ‘autovettura’ è meglio di ‘macchina’, correggere in un testo il lessico di un bambino di sette anni, barrare la parola ‘macchina’ e sostituirla con la parola ‘autovettura’, è un errore di tempistica, perché la correzione non andrà ad agire sulla competenza lessicale ma andrà a corrodere la fiducia espressiva del bambino legata alla competenza lessicale.
Questo è solo un tratto di un generale atteggiamento correttivo che lavora sulla superficie della lingua, una superficie che però in periodo evolutivo non esiste. Cioè non esiste la possibilità di staccare la forma esteriore dell’espressione individuale con le ragioni interiori che creano quell’espressione.
Se abbiamo a che fare con bambini dai sei ai sedici anni, il lavoro sulla lingua deve essere per prima cosa mirato alla consapevolezza di sé, e anche il lavoro di correzione dovrebbe essere un costante lavoro di auto-correzione.
Rodari lavorava su questo, ma chi preme per la competenza vede nel suo lavoro un inaccettabile lassismo che porta all’ignoranza, e chi preme per la spontaneità dei bambini, continuerà comunque a tradire Rodari lavorando solo su questa spontaneità che non sarà abbastanza per far diventare il bambino un adulto linguisticamente competente.

Dunque, per tornare alla questione del tempo: mettereste mai un paio di scarpe da ginnastica a un neonato?
I piedi non saranno liberi di muoversi, il peso delle scarpe in gomma e pelle rovineranno il movimento di gambe fatte di cartilagine e non di ossa, e via dicendo, e quando inizierà a camminare con le scarpe da ginnastica e avrà una postura scorretta, allora state tranquilli che gli diremo di correre. Sul cemento. Sull’erba. In salita, in discesa, e via andare. Poi dopo tredici anni di postura scorretta, di sforzi associati a teorie della deambulazione e della corsa, e a centinaia di esercizi anaerobici, saremo tutti pronti a dire quanto siano poco abituati a correre i nostri ragazzi, e peggio ancora, quanto sgraziatamente camminino ogni giorno, per fare le più semplici cose.
Alla scuola primaria le nozioni formali dovrebbero essere ridotte al massimo e la riflessione metalinguistica dovrebbe riguardare direttamente il mondo del bambino, mentre per quel riguarda il lessico metalinguisco essenziale ci si dovrebbe fermare al nome, al verbo, ai concetti di passato, presente e futuro e alla frase, alla frase subordinata e simili (Monica Berretta, La competenza metalinguistica nella scuola di base, in AA.VV, 1986).
E alle medie, se e quando il ragazzo è pronto a guardare oltre se stesso, si potrà approdare alla lettura di scritture saggistiche, giornalistiche, oltre che letterarie, continuando a lavorare sulla capacità di gestione dei fatti linguistici da parte del ragazzo.
Perché, se prima non abbiamo consolidato la voce del bambino, come potremo lavorare a quanti tipi di cose può dire quella voce e in quanti modi diversi può dire quelle cose e per quali diversi obiettivi deve dirle?
Come potremo insegnare le arti del discorso se avremo a che fare con voci posticce, frammentate, finzionali?

Dunque gli scrittori ci insegnano a tornare alla lingua naturalmente straniata dei bambini, e ai bambini imponiamo la lingua di plastica dei manuali e così molto presto vivremo la più orrenda delle distopie: abiteremo un mondo dove i bambini di cinque anni vestono coperture di lattice poiché oramai allergici alla terra, alla pioggia, al fango, ai bruchi, alle foglie cadute, agli spini delle castagne, e salutano appena svegli, good morning! madri così fiere – un mondo dove i bambini avranno le dita trasformate in pinne a forza di sfogliare fogli inesistenti su schermi piatti, e sapremo sempre dove sono, con chi sono, cosa stanno facendo, e non sapremo più, né avremo più modo di saperlo con nessun mezzo e tramite nessun sistema, come stanno, e semmai ci sarà il sole, allora in questo mondo tutte le formiche avranno l’ombra.

 

L’immagine in evidenza è un’illustrazione di Yocci, contenuta a pagina 87 di Scuola elementare di scrittura emiliana di Paolo Nori (Edizioni Corraini, 2014)

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