Fare formazione non è mai facile e se dovessi dire quale sia stata finora la forma più perfetta di un percorso formativo, di certo sceglierei quella universitaria, quella delle lezioni, di un corso intero con un esame finale che sia l’atto conclusivo di qualcosa che ha avuto già un suo nascere e poi un proprio graduale e pieno sviluppo.
Incontri singoli, singoli eventi possono aprire dei varchi, certo, creare delle suggestioni, ma li si potrebbe definire meglio come momenti di informazione che di formazione. Tuttavia, tra le esperienze formative più significative che abbia avuto modo di affrontare, ci sono certamente le formazioni cosiddette verticali, quelle dove si ritrovano insieme maestri della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e professori della scuola secondaria inferiore (e talvolta superiore).
Questo tipo di percorso attiva una serie di dinamiche virtuose grazie al crearsi di specchiature interne, e permette di fondare un discorso non vuoto e non privo di senso sul concetto di continuità.
Due cose sul fare formazione, la postura del maestro
La prima condizione nel fare formazione è riuscire ad avere la fiducia di chi ascolta. Per quel che mi riguarda, almeno nelle prime ore, non dico parolacce, poi mano a mano che non mi serve più di sembrare credibile, cioè mano a mano che lo divento, che sono credibile, cresce la fiducia e mi permetto qualche parolaccia. Magari questa cosa delle parolacce può sembrare stupida o superflua, ma non posso evitare di riferirla perché chi fa formazione incontra in maniera piena e consapevole l’altro, la persona che l’altro è – carattere, temperamento e vissuto – e io nella vita, nella persona che sono, qualche parola un po’ così la dico.
Questa è seconda condizione (base della prima) necessaria a qualunque vera formazione: essere intera e trasparente per permettere ai maestri di esserlo a loro volta.
La relazione che si crea durante il corso deve essere, per sua stessa natura, espressione e dimostrazione fisica, dal vivo, di quello che è o dovrebbe essere la relazione educativa tra i maestri e i loro bambini e ragazzi.
Ottenere la fiducia di chi mi ascolta significa essere riconosciuta come una persona che non teme né di sembrare, né di essere ridicola. Questo senso del ridicolo, ovvero il suo superamento, è condizione sostanziale per porre la questione della relazione educativa al di fuori di qualunque processo di adultizzazione dei bambini e dei ragazzi, ed è anche base necessaria per iniziare un discorso sulla lingua e sulla natura dei testi letterari: è un lavoro che ha il suo centro e che sviluppa la propria mappatura sul campo aperto della corporeità.
La postura del maestro implicato nella relazione educativa accetta il senso del ridicolo, lo indossa senza esitazione.
Corpo, letteratura, continuità
Le maestre della scuola dell’infanzia non potrebbero dire, neanche volendo, cosa sia il ridicolo, e in ogni caso non lo affronterebbero con senso critico, ma con entusiasmo educativo. Spesso è la risata, l’intuizione fulminea e ironica, il gioco, la trasgressione semantica che salda la relazione educativa tra bambini di 4, 5 anni e le maestre, e tutte queste cose accadono all’interno di un insieme di segni originati dalla e nella percezione corporea.
Sull’uso del corpo in educazione ci sarebbero molte cose da dire.
I bambini della scuola dell’infanzia non scrivono e non leggono implicati in un processo di alfabetizzazione, ma insieme alle loro maestre vivono la lingua come un accadimento, come un percorso che magnifica la crescita individuale e collettiva, dove il corpo è al centro. Il suono è la porta del senso, lo stupore il congegno silenzioso della percezione e della crescita psichica, e il campo aperto dove suono e stupore ballano sono il volto, i gesti, le espressioni, il timbro della voce, le pause, le esitazioni, e insomma il ventaglio totale e potenzialmente infinito dell’apparato espressivo motorio legato alle emozioni.
E ora, la letteratura
Tra una maestra di scuola dell’infanzia che legge Nel paese dei mostri selvaggi digrignando i denti e roteando gli occhi, passando per una maestra di scuola primaria che sorride sorniona leggendo Le Streghe, si arriva alla professoressa di secondaria inferiore che legge con la voce in ginocchio, pulita ma piegata, la corsa di Teresa in mezzo alle ombre notturne, poiché Jacopo la ama terribilmente ma è consapevole che dovrà rinunciare a lei.
E dunque, dentro la letteratura, la lettura.
Lettura e letteratura devono tornare a essere carburante l’una per l’altra, con un dato di partenza che è un dato di fatto: leggere a voce alta crea, tra il testo scritto e il testo del lettore endofasico, il testo numero tre, ovvero quello sospeso tra lettori aurali e iconici (se la storia è anche illustrata) e il lettore che legge a voce alta.
Questo terzo testo è qualcosa che accade, e nell’accadimento prende una propria forma autonoma, ripetibile e anche modificabile.
Mano a mano che si sale nell’ordine di scuola, tuttavia, il testo non accade più: la scrittura diviene una gabbia del senso, una armatura, il testo non accade e dunque non è una presenza, quella presenza vera di cui scrive George Steiner nel suo saggio più famoso.
Per finire, la continuità.
In Perlaparola, Chiara Carminati a un certo punto scrive, riferendosi al fare poesia in classe:
[…] l’ideale sarebbe poter seguire insieme a bambini e ragazzi un percorso graduale, che ne accompagni la crescita emotiva e cognitiva, ma mantenga sempre la poesia immersa nella dimensione orale, anche quando si affrontano testi via via più complessi. Si tratta sicuramente di un modello ideale: nessun insegnante ha la possibilità di seguire gli alunni dall’infanzia all’adolescenza, e quindi di progettare con loro un percorso in poesia graduale e omogeneo. Eppure è un modello flessibile: in ogni momento, ad ogni età, è possibile riallacciare la poesia tramite il filo rosso della voce.
Credo che in questo passaggio vi sia una qualche descrizione autentica del concetto di continuità. Un istituto – la scuola, nel suo insieme – dovrebbe avere le idee chiare su cosa sia la poesia, e in generale la letteratura, sul senso dato alla lettura e sul ruolo del corpo intelligente, del corpo emotivo in età evolutiva, e dovrebbe mantenere – continuare ad avere – le stesse idee durante l’arco temporale che accompagna il processo di apprendimento del bambino e del ragazzo, idee che riguardano anche, come è ovvio, gli obiettivi e i modi della relazione educativa, declinata poi individualmente, bambino per bambino.
Fare formazione verticale significa poter creare un gruppo di lavoro composto di maestri e professori che occupano, all’interno di questo arco, tutte le postazioni disponibili; significa godere di un’occasione fondamentale per confrontarsi, discutere, costruire, strutturare (e talvolta modificare) idee didattiche e formative che seguano lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino, nell’integrità della persona che il bambino è e sta per essere; significa infine tessere, con cura e per gradi, il filo rosso della voce, la salvifica presenza della parola.