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Lettori a scuola senza pettegolezzi

"Scrivo come sono" più che una rubrica è una finestra: qui le storie andranno un po' dove vogliono loro, intanto, per oggi, "Non fate troppo pettegolezzi"!

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Scrivo come sono più che una rubrica è una finestra.

Nello spazio di questa finestra le storie andranno un po’ dove vogliono loro.
Alcune hanno fatto già una qualche strada per Scuola Twain, altre seguiranno semplicemente il racconto di quel che ho letto a scuola, di quello che i bambini e i ragazzi hanno detto e scritto. Anche in questo caso, nel caso dell’età dei bambini e dei ragazzi, c’è una certa varietà: si andrà da bambini di quattro e cinque anni della scuola dell’infanzia, a bambini di sei e di otto anni della scuola primaria, a ragazzi di undici e tredici anni della scuola secondaria inferiore.

Ciò che tiene insieme questa finestra è il cielo su cui si affaccia, e questo cielo è la lingua dei bambini e dei ragazzi. Il modo in cui raccontano se stessi, il modo in cui posso leggere la loro scrittura, il modo in cui posso leggere a voce alta una storia (sento dire proprio oggi che chi vuol fare filosofia con i bambini non deve leggere tante storie a voce alta soprattutto se son storie illustrate, perché ingabbiano il libero pensiero infantile: vedremo quindi l’importanza che riveste la voce dell’adulto che racconta la storia e l’importanza fondamentale delle immagini dei libri illustrati) oppure ancora come parlare di Foscolo, della morte, ecco, decidere se bisogna o no parlare della morte ai ragazzi, per esempio.

Questa è appunto la nuvola che passa ora: viene da un libro che ho letto e riletto: Non fate troppi pettegolezzi di Demetrio Paolin. Il libro di Paolin è una lunga passeggiata dentro Torino e dentro le ragioni di quattro grandi della nostra letteratura (Salgari, Pavese, Levi, Lucentini) che hanno deciso della propria morte.

Questo libro ha incontrato delle resistenze nel mondo della scuola; viene avvertito come un libro che parla della morte, del suicidio, dunque un libro difficile, visto che ai ragazzi è difficile, talvolta rischioso, parlare della morte – rischioso perché la relazione tra la morte e il preadolescente e adolescente ha una sua complessità nebulosa e seduttiva.
La morte è argomento poco agibile anche alla primaria, ma torno al libro di LiberAria editrice.

Per primo vorrei dire che non si possono fare teorie, costruire castelli in aria, in nessun caso, meno che meno su qualcosa che ha a che fare con la prassi scolastica. Il perché è semplice, ha a che fare con l’esperienza diretta che gli insegnanti hanno dei propri ragazzi e delle dinamiche relazionali delle proprie classi. Fare teorie equivarrebbe a spazzare via queste esperienze e la consapevolezza che ne viene, mostrando nessun rispetto a riguardo.

Dunque niente teorie sui singoli casi che arrivano a prendere una decisione o l’altra per vie proprie; dirò qualcosa invece sull’atteggiamento più generale e generalizzato che porta a trattare con le pinze libri come NFTP; questo atteggiamento non ha a che fare non l’esperienza scolastica ma con una scelta educativa.

Su questo torno dopo.

Quando ho letto NFTP ci sono state due cose che più di altre mi sono rimaste dentro, come lettore. La prima è la logica che guida le scelte della scrittura: Salgari, Levi, Pavese, Lucentini sono legati a certi luoghi della città di Torino; Demetrio Paolin guarda questi luoghi, li attraversa, e facendo questo ricostruisce una nuova mappa della città, che è la sua personale geografia di uomo e di scrittore.
La seconda è che in ognuno di questi universi d’autore regna un tempo verbale sugli altri: il passato remoto in Salgari; il presente in Levi; il futuro in Pavese; l’imperfetto in Lucentini.

Su queste due cose lavorerò con undici classi terze di scuola secondaria inferiore, aprendo qualche ipotesi di lavoro sui luoghi della città reali e immaginari e sulla nostra personale mappatura di essi e su come il tempo verbale che scegliamo decida molto del senso di ciò che stiamo scrivendo. Ovviamente leggerò i quattro autori – tra l’altro Lucentini è una palestra formidabile per la lettura a voce alta.

Torno alla scelta educativa: credo che essa abbia a che fare col gesto stesso di portare un libro in classe.
Posso farlo guardando al libro come a uno strumento di lavoro. Oppure posso farlo sentendo il libro come un compagno di viaggio.
Nel primo caso, il libro è un argomento con cui affrontare un discorso, un testo secondario, come possono esserlo le antologie, le guide critiche, i manuali.
Nel secondo caso, il libro è un movimento che ha coinvolto intelletto e emozioni e che ha a che fare con me, un testo primario, come possono esserlo le poesie, i racconti, i romanzi e i testi critici del tipo di NFTP che a loro volta, pur ponendosi come testi secondari che parlano di racconti e poesie e romanzi, innescano un meccanismo di accrescimento del senso del tutto simile a quello proprio della letteratura. La natura di questo libro mi sembra esprimersi nel senso di una narrazione necessaria allo scrittore e che dunque chiama in causa il lettore.

Essere lettori non è solo una scelta didattica (che cosa leggo), è questa scelta educativa (come leggo).
A proposito di scelte: nella scuola dell’infanzia, quando si tratta di acquistare gli albi illustrati da leggere ai bambini, in genere i temi cercati dalle maestre sono: emozioni (soprattutto rabbia, gelosia), identità, diversità, e talvolta si va cercando il libro secondo il tema, mentre si dovrebbero trovare i temi contenuti e nascosti, più o meno in bella vista, nei libri. Sono i libri la sfida, la vita aggiunta, la possibilità stessa della ricerca di un senso.
Se dunque leggo un libro, consapevole del mio ruolo attivo di lettore e del valore della narrazione, questo gesto, questa lettura consapevole, è una scelta educativa che mette allo scoperto una parte di me, quella parte che entra nel gioco molto serio della lettura.
Nel momento in cui faccio spazio dentro di me per la storia che sto leggendo, io sto facendo spazio a tutto ciò che quella storia porterà ai bambini e a tutto ciò che i bambini riporteranno a me per il tramite della storia. Devo anche scegliere: primo di esserci; poi di essere visibile; infine di essere riconoscibile perché questo processo possa attuarsi (ed essere vero) anche per i bambini.
Questa relazione che lega libro, adulto e bambino non cambia quando il bambino è diventato un ragazzo.

Portare un libro in classe è scegliere se farlo davvero, da lettori, oppure no.

Porsi il problema della bontà di un tema, qualunque tema esso sia, non contempla questo tipo di scelta.

Infine, sul parlare della morte ai bambini e ai ragazzi credo sia possibile e talvolta necessario. Nel senso che è qualcosa cui l’adulto che educa non può sottrarsi, nel momento in cui la morte viene vista, o sentita vicina, o esperita in prima persona.
Mario Lodi lo ha fatto così.

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