Questa settimana Scrivo come sono ospita un’intervista a Gabriele Clima.
Scrittore e illustratore di libri per bambini e ragazzi (l’ultimo suo romanzo per ragazzi è Il sole tra le dita), Gabriele conduce anche laboratori e corsi di formazione per insegnanti.
Chi mi legge sa che credo nella centralità del ruolo didattico e formativo della lettura e della scrittura, non solo per i bambini e per i ragazzi, ma per gli stessi maestri. Durante un incontro del corso di scrittura emozionale che tengo all’Università dell’Età Libera, ho sottolineato l’importanza della scrittura come strumento privilegiato di formazione personale, prezioso per chiunque, imprescindibile per chi lavora in educazione. Al che, un corsista è intervenuto dicendo che sua moglie fa la maestra da trent’anni e per trent’anni non ha mai scritto: “Devo pensare – mi ha chiesto – che mia moglie ha sbagliato a fare il suo lavoro per trent’anni?”.
C’è un testo che amo molto, A partire da un libro di Roberta Passoni; è un testo in cui questa maestra straordinaria racconta del suo lavoro a scuola. Non saprei dirvi quante volte, in questo libro, associato all’atto della lettura vi si trovi l’atto della scrittura, ma posso assicurarvi che la scrittura della maestra passa più e più volte attraverso la stesura di lettere, programmazioni, racconti; che proprio la scrittura modifica le dinamiche formative e accompagna il lavoro didattico promuovendo la crescita, non solo quella dei bambini, ma anche quella del formatore che è chiamato esso stesso al cambiamento.
Ho dunque chiesto a Gabriele – che ringrazio per la gentilezza e la cura con cui ha risposto – il suo punto di vista riguardo il senso dell’incontro tra chi scrive per professione e chi, come i bambini e i ragazzi, sta ancora formando la propria competenza e il proprio carattere dentro la lingua.
Come mai negli ultimi anni sono diventate così numerose le iniziative che portano scrittori nelle scuole?
Credo stia emergendo la necessità di cambiare le cose, di cambiare il modo di avvicinare i ragazzi ai libri e in generale il modo di proporre letteratura nelle scuole. Si è visto che i ragazzi leggono se coinvolti. E, quando questo non succede, forse la responsabilità è nostra, e del modo in cui la letteratura è stata finora proposta ai ragazzi: i libri dati come compito, le schede, i voti sui riassunti dei libri letti durante le vacanze. È una modalità che non funziona, e spesso ottiene anzi l’effetto contrario, perché riduce i libri a materia di studio e li allontana dai ragazzi. Oggi si cerca di colmare questa divisione, e di recuperare un rapporto più autentico e reale fra libri e ragazzi. In questo, lo scrittore a scuola si rivela un’ottima risorsa, perché dà ai libri voce viva, presente, partecipe in quel momento della voce dei ragazzi. E restituisce la letteratura alla realtà, che è il posto in cui deve restare.
In genere l’incontro con un autore non si risolve mai nel discorso intorno ai libri scritti, ma si ramifica e si amplia intorno ai libri letti. Che cosa può significare questo per i bambini e i ragazzi?
Be’, scoprire da parte dei ragazzi che anche uno scrittore, come loro, legge libri, vuol dire condividere abitudini di vita, prima che contenuti. Vuol dire “costruire realtà”, aiutando a demolire quel confine fra loro e la letteratura di cui parlavo prima. Mi capita spesso, quando giro per le scuole, che i ragazzi mi parlino non dei libri che io ho scritto, ma di quelli che entrambi, io e loro, abbiamo letto. È un desiderio autentico che nasce dai ragazzi stessi, e questo significa che i libri, in potenza, sono già nei loro interessi.
Questa cosa che dici, del libro che fa già parte del mondo del bambino e del ragazzo, è molto interessante, poiché credo abbia a che fare con il cammino di costruzione identitaria che passa per l’acquisizione di una lingua. Sei d’accordo?
Il discorso sulla lingua è complicato. Ho recentemente assistito a una bellissima conversazione con Giusi Quarenghi sulla lingua poetica, la più vicina, per molti versi, a quella del bambino, perché autentica, perché non mediata, perché semplice e ricca al contempo, per svariate ragioni che sarebbe lungo elencare qui. Credo che lavorare sulla lingua coi ragazzi sia compiere quell’operazione che la lingua poetica fa rispetto alla lingua parlata: sposta il fuoco, da un codice decifrativo a uno simbolico che, prima di una competenza linguistica, fornisce ai ragazzi una coscienza linguistica. Questo aspetto Giusi lo enuncia magistralmente, ed è un punto cruciale dell’insegnamento della lingua a scuola. Credo che il migliore insegnamento parta proprio dalla lingua poetica, che ci sembra così lontana dalla lingua più utile e pratica, quella condivisa, e invece è propedeutica a questa, perché prepara il terreno all’invenzione e alla ricerca di significati su cui la competenza linguistica si basa. La lingua poetica è il primo passo verso la reale padronanza della lingua. Per questo leggo spesso poesia ai ragazzi, e la cosa più bella è vedere la loro sorpresa nello scoprire che la poesia è una cosa molto, molto diversa da quella che hanno studiato a scuola; e può essere perfino divertente.
Andrea Bajani, a pagina 6 de La scuola non serve a niente, scrive:
«Un bambino impara – senza che glielo insegni nessuno – che nominare il mondo, prenderlo a parole, significa riconoscerlo, assumersi la responsabilità di scegliere, tra tante, soltanto alcune cose, che saranno quelle che lui chiamerà per nome. […] Da bambini succede. Poi si passa il resto della vita a maltrattare le parole a svilirle. a dimenticarsene il mistero. […] Si useranno ordigni indeboliti, a volte solo per far male, e sempre meno per scegliere, sempre meno per far succedere il mondo. É qui che dovrebbe entrare in gioco la scuola.»
Secondo te, che tipo di lingua viene insegnata a scuola?
È chiaro, si tende ad insegnare quasi sempre quella condivisa. Del resto la scuola mira a costruire un sistema di comunicazione comprensibile e questo è giusto. La lingua che chiama tavolo un tavolo è inequivocabile, va dritta al punto, da A parlante a B ricevente. Purtroppo, come ogni lingua condivisa, è la meno ricca e la meno stimolante, la meno appropriata da insegnare, oserei dire, perché si muove su binari da cui è molto difficile poter uscire. Lo scrittore – e il poeta in particolare – ha proprio questa funzione, scardinare i binari della lingua condivisa per dilatarne gli ambiti e i significati. E creare percorsi alternativi sulla base di quelli che già condividiamo. Mi sembra un aspetto molto pratico e per nulla secondario, eppure viene fatto molto poco nelle scuole in questo senso. Ecco perché sarebbe importante studiare a scuola la lingua poetica. Non le poesie, o non solo, almeno. La lingua poetica, che è un’altra cosa.
Hai incontrato maestri e professori che fanno un lavoro in questa direzione?
Sì, alcuni lo fanno, e anche molto bene. Ci sono maestri che lavorano moltissimo sulla lingua. Mi viene in mente Antonella Capetti – ma ce ne sono altri – che ha fatto dei libri strumenti di lavoro con i suoi studenti (e non parlo ovviamente dei libri di scuola). Questi maestri lavorano sulla lettura, sui contenuti, sui temi, sul linguaggio, anche sulla lingua poetica; lavorano sui libri a trecentosessanta gradi. E da quello che posso riscontrare, sia i risultati sia l’apprezzamento sono formidabili. Sarebbe bello se fossero in tanti a farlo. Certo, è un notevole investimento di tempo e di energie, e non sempre alle spalle c’è una struttura scolastica aperta a questa piccola rivoluzione.
L’incontro con l’autore a scuola è spesso vissuto come un incontro per sua natura stra-ordinario: come ti accosti alla realtà del lavoro che si svolge a scuola nel ruolo di esperto di scrittura e lettura?
Be’, l’esperto si chiama per diversi motivi. Non tutti gli insegnanti, come dicevo, hanno modo o spazio di manovra per ampliare, modificandola, la propria offerta. L’esperto, nell’offerta, porta uno sguardo diverso, il suo, fatto di strumenti nuovi e di una specificità che spesso l’insegnante, da solo, non può avere. Purtroppo, in quanto “esperto”, rimane sempre una figura esterna, separata dalla realtà scolastica, da chiamare quando serve. Occorrerebbe davvero trovare un modo per integrarla nella scuola, renderla strutturale all’offerta formativa.
Gli incontri che faccio con i ragazzi sono sempre e comunque molto ricchi e partecipati. Forse proprio perché non è ancora così comune avere a scuola lo scrittore (non sono molte, rispetto al territorio, le scuole che lo fanno), e lo scrittore che entra in una classe è un evento magico, a volte perfino misterioso.
«Ma sei davvero uno scrittore?» mi chiedono spesso i bambini; alcuni di loro non riescono quasi a immaginare che ci sia qualcuno in carne e ossa dietro ai libri.
Ecco, se lo scrittore a scuola fosse evento più comune, questo passaggio sarebbe in qualche modo superato e negli incontri forse si potrebbe approfondire maggiormente proprio il discorso sulla lingua. E senza che magia e mistero vengano intaccati, perché l’incontro con l’autore resta in ogni caso un momento emozionante. E confesso che ogni volta è un po’ magico anche per me.
Come formatore che cosa ti prefiguri nei tuoi ascoltatori e quali sono le realtà che incontri?
Dipende da quello che sono chiamato a fare. Io parto sempre dai libri, qualunque sia l’intervento che mi chiedono, non solo libri miei, come dicevo. E dai libri inizio un percorso il più ampio e articolato possibile. Occorre perdere tempo, intorno ai libri, proprio perché non si tratta solo di passare competenze, ma di condividere abitudini. Che poi vengono finalizzate a scopi ben precisi.
Quello che riscontro è, generalmente, conoscenza frammentaria o a volte nulla dei libri per l’infanzia. Dico generalmente perché, ne parlavo prima, ci sono insegnanti che i libri li usano ogni giorno. Per questo, nella formazione nelle scuole, parto sempre dalla selezione dei libri, evidenziando soprattutto quegli indicatori di qualità che permettono di valutare se un libro è buono oppure no. La selezione è imprescindibile, perché con libri brutti non si va da nessuna parte.
Durante il percorso, assisti ad una sorta di “trasformazione” di chi ti ascolta? Se sì, da cosa è dovuta, quali sono gli elementi che agiscono, che entrano in gioco, nello scambio tra formatore e maestri?
Sì, c’è sempre una trasformazione, spesso anche molto visibile. E dipende proprio dallo scambio di cui hai parlato tu. Io non scendo dall’Olimpo a infondere sapienza, quel che faccio è costruire uno scenario insieme a chi mi ascolta. È, appunto, uno scambio, una relazione, e l’ho imparato dai ragazzi prima che dal mio mestiere: essere in apertura, cercare condivisione, contaminazione. In questo i ragazzi sono stupefacenti, c’è da imparare moltissimo da loro. Credo che la formazione debba essere proprio questo prima di tutto, contaminazione, in special modo nelle scuole. Le cose migliori nascono sempre dall’incrocio delle correnti.
Lavorare con i bambini è anche lavorare su stessi: con la scrittura e con la lettura si ha piena coscienza di questo lavoro e attraverso e dentro questo lavoro, la scuola si salva da sola.
L’illustrazione di copertina è a pagina 52 de Il libro delle cose reali e delle cose fantastiche (Lapis Edizioni).