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Perché amo Raffaello Baldini?

Difficile aggiungere qualcosa in parole alla grandezza di questo giornalista, poeta e scrittore: dai reportage per Panorama, alle straordinarie raccolte di poesia in dialetto santarcangiolese, ai monologhi Zitti tutti, Carta canta, In fondo a destra e La fondazione (portati in teatro per primo da Ivano Marescotti) – e a qualcuno che gli ha chiesto perché un monologo? lui ha risposto così:

La domanda è tutt’altro che assillante, d’accordo. Ma qualcuno me l’ha fatta. E io ho sempre dato risposte che non mi persuadevano. Forse, si può partire dal quotidiano più banale. Ci sono momenti in cui si ha qualcosa da dire a qualcuno, che ci farebbe piacere dire, che qualche volta addirittura sentiamo il bisogno di dire. E ci accorgiamo che non vuole ascoltare nessuno. Ma forse sto esagerando, no, non è proprio che nessuno ha voglia d’ascoltare, semplicemente uno non ha tempo (ormai non si ha più tempo per niente) o ha ben altro per la testa o non è il momento giusto o sta cercando anche lui qualcuno a cui dire qualcosa. Forse, in qualche caso, è anche una questione di ritegno: alla fine incontri la persona che saprebbe ascoltarti, ma senti che, altro che qualcosa, gli dovresti dire tutto, e non t’arrischi e non gli dici niente. Oppure, credi d’aver trovato la persona, stai parlando, e ti rendi conto che quello ti sente, ma non ti ascolta. E non è che faccia la commedia, ascoltare è difficile, ascoltare è sempre un po’ diventare l’altro, e uno si difende, d’istinto. O, anche, hai trovato uno che ti ascolta, bene, parli, parli, ma, come a tradimento, ti viene un pensiero velenoso: quanto dureranno i tuoi guai nei suoi pensieri? dopo tanto parlare, quanto durerai tu per lui ? in lui ? cinque, dieci minuti? un quarto d’ora ? Forse è anche una questione di pudore: si va a céna con amici, si mangia e si beve e si ride, si attacca un filetto ai funghi e si loda un indimenticabile brasato al barolo, si parla di viaggi, di persone, di politica, di amori, poi si saluta e ognuno torna a casa a ripensare alla solitudine e all’angoscia del vivere. In queste condizioni, le cose che abbiamo da dire non resta che dircele addosso. È quello che fa il personaggio di Zitti tutti! Non sa a chi dire le sue cose, e comunque le dice: a qualcuno che non c’è, allo specchio, a vanvera. E rischia di far ridere. Ma in fondo chi l’ha detto che dalla disperazione si può solo piangere?
(dalla presentazione a Carta canta, Zitti tutti, In fondo a destra, Einaudi Editore.)

Dal 13 al 20 settembre, Santarcangelo diventa cantiere poetico a cielo aperto per Raffaello Baldini (questo il programma), e questo che segue è un brano di un monologo ante litteram, pubblicato una sola volta in “Imago”, house organ progettato da Michele Provinciali per la fotolito Bassoli di Milano, nel 1963 –  quattro anni più tardi uscirà per Bompiani, Autotem, un libro d’arte, una sorta di galleria di frammenti costituita da immaginarie lettere scritte a un misterioso direttore di giornale: perno attorno cui ruotano deliri, desideri, recriminazioni e sogni: la macchina. Ed è proprio la macchina il centro di questo (quasi) inedito e primo monologo baldiniano:

[…]
Sai, quando uno viaggia per chilometri e chilometri da solo – c’è la radio, va bene, e si sente un po’ di musica – ma in pratica siete tu e lei. é una cosa abbastanza difficile da spiegare, però col tempo, coi chilometri, si crea un rapporto. E, allora, quelli che le danno un nome, che la chiamano Carolina, Dolly, Sebastiana? é innegabile che c’è qualcosa, un po’ meno, se vuoi, ma qualcosa come si doveva sentire per il cavallo quando si andava a cavallo. Dire come nasca è un problema. Si comincia da piccole cose. Per esempio, mi ricordo anni fa, la mia prima macchina, era una Ceirano 124 (e fra l’altro sostengo che la 124 è la macchina migliore che abbia fatto la Ceirano, hanno voglia adesso a cambiare), comunque mi ricordo, la faccenda che mi teneva occupato di più era di chiudere a chiave la portiera tutti momenti. Dapprincipio poteva essere un fastidio, ma poi mi rendevo conto che la cosa aveva un significato morale, cioè quel chiudere sempre a chiave era come tradurre il senso di proprietà in concreto, in un gesto semplicissimo, ogni volta che chiudevo io dicevo: questa macchina è mia. Perché la gente ruba. Ti rubano il plaid, ti rubano l’impermeabile e il paltò, ti rubano la borsa, ti rubano la benzina, ti rubano anche il giornale. E sono organizzati, se hai la macchina nuova puoi dare l’addio alla ruota di scorta, quella te la fanno fuori nei primi venti giorni, garantito. E io quando parcheggiavo la macchina e la chiudevo, e magari mi guardavo attorno, vedevo le facce, ecco, quello è capace di rubarmi il plaid, quello è uno da ruota di scorta. E io non mi sbaglio facilmente, e del resto non viviamo i un mondo di ladri?

Se volete ascoltare il prima e il dopo, l’appuntamento è con Ennio Grassi e Tiziana Mattioli – che sonderanno gli anni passati sotto silenzio dalla critica, alle spalle del 1968, qui.

Leggere Baldini può essere una fatica: è difficile non falsare l’autenticità di questa voce senza nome, che non appartiene a nessuno, che può essere di chiunque; una voce fragile, una sorta di fantasma, delle volte, ma anche una voce onesta, una voce che ci prova, ad esserci, ed è questo che amo di più, questo tentativo di esserci, che è insieme dire e ascoltare: provo a leggere Baldini, mercoledì sera, a Santarcangelo, ma un poeta così perché non possiamo leggerlo, la mattina, a scuola?

L’immagine di copertina è di Michele Provinciali, in “Imago”, 1963.

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