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Siamo sicuri che gli Etruschi siano proprio un popolo misterioso?

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“C’è punti Etruschiiii?”

Che tradotto per i non-Toscani significa qualcosa come: “Ci sono tracce degli Etruschi in quello scavo che state facendo?”

Questo ci hanno urlato una volta da una bici in corsa lungo la via Aurelia, buttando un occhio allo scavo a bordo strada.

Se lavori in Toscana, e ancora di più nel territorio di Populonia, non ti aspettare una domanda che non riguardi gli Etruschi. Lì c’erano gli Etruschi. Punto.

I Romani? Qui??? Davvero? E gli Etruschi no? Com’è possibile?

Del resto lì a pochi chilometri c’è Baratti, con quella meraviglia della necropoli di S. Cerbone. Gli Etruschi sono di casa. I Romani no, non attraggono allo stesso modo: troppo ordinari, troppo studiati, troppo noti e anche un po’ banali, scontati, bravi, potenti… a scuola ci fanno una testa così!

Gli Etruschi invece…  Loro sì che sono passati attraverso la Storia, lasciandovi una impronta di mistero! E noi siamo istintivamente attratti da tutto quello che non conosciamo.

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Una porta chiusa non attrae più di una porta aperta? Tomba degli Auguri a Tarquinia

Ecco perché anche i bambini ne sono affascinati e quando lavoriamo con loro, dopo la domanda sui dinosauri, sfoderano quella sugli Etruschi.

I misteriosi Etruschi per essere precisi.

Il loro fascino aveva colpito anche gli autori greci che cercavano di spiegarsi da dove potesse essere arrivato un popolo così diverso da tutti gli altri che abitavano allora nella penisola italica: vivevano in belle città, erano navigatori e commercianti, avevano un gusto raffinato e abitudini di vita simili a quelle dei Greci; banchetti eleganti, con suonatori, bellissime coperte e serviti preziosi … sì, gli Etruschi erano in grado di competere con loro che erano i Greci, proprio quelli con la G maiuscola!

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Una scena di banchetto nella tomba dei Leopardi a Tarquinia 

Pensate che quando Roma era ancora un villaggio di capanne, gli Etruschi avevano già costruito bellissime città protette dalle mura, con case e templi come Cerveteri, Tarquinia, Populonia!

Lo stesso imperatore romano Claudio, molti anni dopo, fu un appassionato studioso degli Etruschi: ci aveva scritto su anche dei libri che purtroppo non sono arrivati fino a noi. I Romani infatti li avevano sconfitti, ma ne erano anche affascinati e avevano ereditato da loro molte cose della loro vita quotidiana: un esempio? La casa romana, quella con l’atrio: i Romani l’avevano copiata dagli Etruschi!

Ma l’ingrediente più misterioso della civiltà etrusca rimane anche oggi, per tutti, la lingua … che ancora non siamo riusciti a decifrare. Quante volte noi archeologi abbiamo sentito questa frase!

… Ma è vero?

No! L’alfabeto lo conosciamo bene: è quello greco! Gli Etruschi infatti, quando cominciarono a fare affari con i Greci che vivevano nella città di Cuma (vicino a Napoli), ebbero bisogno di scambiarsi con loro anche delle informazioni e adottarono il loro alfabeto. La lingua che parlavano gli Etruschi però non aveva alcuni suoni e così eliminarono dall’alfabeto greco le lettere che corrispondevano a quei suoni.

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L’alfabeto etrusco a confronto con quello greco di Cuma.

Quando, parlando con le persone, noi archeologi spieghiamo questa cosa, tutti ci guardano con stupore: davvero? Ma io credevo… ma allora non è vero che non conosciamo l’etrusco?!

Una parte di verità c’è in realtà. L’alfabeto lo conosciamo, ma abbiamo pochi documenti scritti in etrusco da studiare. Conosciamo circa 10.000 iscrizioni e circa 8.000 parole… vi sembrano tante?

Non sono poche, è vero, ma si tratta nella maggior parte dei casi di testi molto brevi. Per lo più sono funerari e ci trasmettono quindi soprattutto nomi propri (questo è molto interessante perché possiamo sapere come si chiamavano gli Etruschi!).

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Il sarcofago di Larthia Seianti al Museo Archeologico di Firenze (da D. Locatelli, F. Rossi, Etruschi, Verona 2009)

A questi si aggiungono le iscrizioni su alcuni oggetti che dicono “io sono la fibula di …., mi ha prodotto …”  e da queste conosciamo ancora nomi propri, nomi di artisti, e verbi ben precisi.

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Fibula in oro da Chiusi, conservata al Museo del Louvre, con iscrizione: “Io sono la fibula di Arath Velavesna. Mamurke Tursikina mi ha donata”

E poi ci sono altre iscrizioni più lunghe che riportano testi di alcuni trattati tra le città (come quello scritto sulle lamine d’oro trovate a Pyrgi-S. Severa, tra le città di Cerveteri e Cartagine) o iscrizioni dedicatorie, con le quali cioè sii faceva una dedica, per esempio di una statua, a una divinità.

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Le lamine di Pyrgi, conservate al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (Roma)

Non abbiamo invece nemmeno un testo di uno scrittore etrusco.

Questo ci avrebbe aiutato molto, perché nei testi lunghi c’è una varietà più ampia di parole.

Pensate a quando dobbiamo scrivere un tema: usiamo molte più parole per descrivere le cose di cui parliamo, diamo spazio alla nostra fantasia e abbiamo bisogno di tanti termini diversi.

Invece, nei documenti ufficiali come potevano essere i trattati tra le città etrusche, anche noi usiamo sempre le stesse espressioni.

E anche nei nostri cimiteri ci sono solo i nomi dei defunti e le date della loro nascita e morte; a volte qualche breve frase.

Oppure sui nostri oggetti che cosa leggiamo oggi? Prodotto in … made in … data di scadenza, ingredienti…, lavare a secco…

Poche parole insomma: pensate se dovessimo studiare l’italiano soltanto da questo tipo di testi!! Non ne sapremmo molto!

Quindi sappiamo leggere la lingua etrusca, ma non conosciamo molte parole, né molte regole di grammatica (quella noiosa che ci tocca studiare a scuola!).

Un altro mito da sfatare riguarda il bucchero… che ancora non abbiamo mica capito come lo facessero!

Anche qui, agli archeologi, viene l’orticaria!!

Ma come possono diffondersi tante conoscenze sbagliate tra le persone? Forse perché molto spesso, per attirare l’attenzione su un tema si punta un po’ troppo sul mistero? Basta pensare a come vengono raccontate tante cose in tv… ma anche la scuola può avere una sua responsabilità e anche noi archeologi quando comunichiamo i risultati delle nostre ricerche.

Ai bambini piacciono le storie, noi di ArcheoKids lo sappiamo bene. Ma l’ingrediente del mistero non è indispensabile: si possono raccontare storie molto coinvolgenti stuzzicando e coltivando la curiosità dei piccoli anche senza incartare tutto in un velo di mistero… soprattutto se non ce n’è ragione!

Dunque… dicevamo che anche il bucchero è caduto “vittima del mistero”.

Sapete che cosa è il bucchero?

Ecco qua:

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http://af.wikipedia.org/wiki/Bucchero

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http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Anfora_in_bucchero_da_orvieto,_VI_sec._ac._02.JPG

È un tipo di ceramica molto particolare, nera e lucida di fuori e nera anche dentro. Di solito le ceramiche che appaiono così, al loro interno sono arancioni o marroncine chiare, perché quella nera è solo una vernice brillante applicata sulla superficie; gli antichi usavano questa tecnica per produrre dei vasi che assomigliassero a quelli di metallo che erano molto più costosi e che non tutti si potevano permettere. Gli Etruschi però avevano escogitato un metodo di cottura dei vasi che, in particolari condizioni, faceva diventare nero anche l’impasto della ceramica e aumentava l’impressione di un oggetto metallico, bello lucido.

Con questo materiale producevano vasi talmente belli per il banchetto che piano piano vennero sempre più richiesti: siamo alla fine del VII secolo a.C., quindi oltre 2.500 anni fa: le navi etrusche solcano il mare cariche di bellissimi vasi in bucchero che arrivano sulle tavole di ricchi signori per tutto il Mediterraneo… è per questo che oggi noi archeologi troviamo questi vasi anche molto lontano dall’Etruria.

Quando la nostra insegnante ci parlò del bucchero in classe, io rimasi incantata: forse smisi di ascoltare la sua spiegazione e non sentii quando, quasi certamente, spiegò la tecnica con cui gli Etruschi riuscivano a produrre una ceramica nera anche all’interno o forse lo spiegò in maniera difficile (riguardando una reazione chimica…) e io cominciai a fantasticare all’indietro nel tempo. Fatto sta che nei giorni seguenti, per diversi pomeriggi, io e la mia amica Selena, abbiamo cercato di riprodurre un impasto nero in maniera molto molto artigianale!

Dietro la mia casa, allora costruita da poco, vicino all’orto, erano rimasti ancora un bellissimo mucchietto di rena e sabbia e diversi mattoni; nell’orto del nonno, tutti i giorni o quasi, si svuotava la cenere del caminetto e ci finivano sempre dentro anche dei carboni…

Secondo voi che cosa abbiamo fatto?

Secondo voi perché andavamo a casa con le unghie nere sotto gli sguardi poco entusiasti delle nostri madri?

La parola d’ordine era impastare impastare impastare!

Nel nostro “laboratorio”, allestito tra i mattoni e le tegole avanzate, abbiamo fantasticato di riprodurre il bucchero degli Etruschi.  Peccato oggi non avere nemmeno una foto di quei pomeriggi… con le guance rosse, tra qualche lucertola, che ogni tanto scappava sotto il rumore dei nostri colpi, e l’emozione di stare facendo un esperimento.

Se i nostri coccetti di bambine avessero potuto parlare… Altro che cenette, altro che torte finte, noi provavamo a fare il bucchero!

È stato allora che ho imparato che per fare una cosa serve impegnarsi, che poi a volte gli esperimenti, anche se condotti con le migliori intenzioni, non riescono. Non importa, si può sempre provare un’altra strada per la scoperta di ciò che non conosciamo, ma il mistero no, è solo qualcosa che ci butta il fumo negli occhi e non ci fa vedere la verità.

Elisabetta Giorgi

 

 

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