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L’impronta del passato

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Ogni archeologo che si rispetti, almeno una volta nella sua vita si è trovato davanti a qualcuno che gli poneva questa fatidica domanda: “qual è la cosa più preziosa che hai trovato?”.

E te lo chiedono, di solito, con quella luce negli occhi, un misto di interesse e trasporto che ti lascia un po’ così, stranito, ad oscillare in bilico tra la cortesia e lo sforzo di non deludere quella curiosità da un lato e l’istinto, dall’altro lato, di lanciarti in un monologo appassionato da Actors Studio in cui accalorandoti, in un crescendo incalzante di emozioni, concludi con un “ogni granello di terra è per noi preziosissimo!”. Invettive da archeologi ortodossi a parte, quando mi sono trovata a rispondere a questa domanda, mi sono trovata a pensare che uno dei modi migliori per spiegare il concetto di “prezioso” in relazione al mio mestiere fosse di raccontare questa storia.

O meglio, dovrei dire la storia di questa storia. Eh, sì, perché l’oggetto in questione, come ogni oggetto ritrovato, ha a quel punto due vite: una legata al passato, l’altra, quella che inizia da quando viene riportato alla luce. E di luce questo strano oggetto ne ha vista tanta, perché il set che lo vede protagonista si trova a Gortina nell’isola di Creta, e vi posso assicurare che di sole ce n’era proprio tanto in quel giorno di luglio di qualche anno fa in cui è riemerso dalla terra ed è stato guardato come si guardano un po’ tutte le cose inusuali che riemergono mentre stai scavando, con quel cipiglio di frettolosa curiosità che sa di non poter trovare subito risposta, perché semplicemente non è quello il momento: quello è il tempo di togliere terra e documentare, ai materiali ci si penserà dopo.

E quel “dopo” arriva solitamente nel pomeriggio, quando quei sacchetti di plastica riempiti di cocci rotti vengono svuotati in secchi pieni d’acqua per essere puliti. Ebbene, quando quello strano oggetto mi è capitato in mano, via via che la terra incrostata se ne andava, continuavo a chiedermi: “ma cosa cavolo è?”. Ogni giorno su uno scavo si lavano centinaia di pezzi di anfore, di vasi, di piatti, di frammenti di marmo, elementi talmente riconoscibili che l’intera operazione viene quasi sempre svolta in una specie di trance; effettivamente è abbastanza raro che tu non riesca a risalire subito all’oggetto cui quel frammento doveva appartenere. Eppure, eccolo lì…

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A prima vista aveva tutta l’aria di somigliare moltissimo alla parte inferiore di una lucerna, ma queste piccoli lumini usati dagli antichi, almeno dall’epoca romana in poi, hanno una particolarità: sono fatti a matrice e non al tornio, questo significa che se ne riescono a fare tanti di forma pressoché identica, un po’ come venissero stampati: i contorni pertanto sono precisi, netti, senza sbavature, sono veri e propri pezzi di fabbrica in cui il difetto veniva appositamente scartato. E per quanto il pezzo che avevo in mano fosse appunto solo un frammento, per di più con un forellino in mezzo di cui proprio non riuscivo a cogliere il senso, era sufficiente a capire che era troppo imperfetto (leggi “brutto”) per poter essere uscito da uno stampo. E poi era piccolo, davvero piccolo! Che fosse davvero la lucerna più brutta e più piccola del mondo?

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[Matrici per la produzione di lucerne dalla fornace di Cittanova (http://www.aemiliaonline.it/reperti/lucerne/lucerne-dalla-fornace-di-cittanova) e ricostruzione di un contesto di rinvenimento con lucerne accese da Gortina].

Pensavo a tutte queste cose mentre con uno spazzolino in mano continuavo a togliere le incrostazioni rimaste sulla sua superficie, e mi concentravo sull’interno… ed è stato allora che ho notato qualcosa di ancora più strano: delle buffe linee che senza un senso apparente si incrociavano tra loro e che invece di essere “incise” – come al massimo ci si può aspettare sulla superficie di un coccio – erano lievemente in sovraimpressione. Lo ammetto, ho sgranato gli occhi pensando di aver preso decisamente troppo sole in testa durante la mattinata, poi ho iniziato a rigirarmi tra le dita quello che ormai avevo ribattezzato come “il coso”, come se sperassi che cambiando angolazione mi potesse arrivare una sorta di rivelazione ultraterrena.

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Ed ecco, in un lampo, un flash che mi ha riportato indietro al tempo in cui impiastricciavo il pavimento di camera mia con il Pongo, l’illuminazione: io quelle linee le avevo già viste da qualche parte! Erano caotiche e non disegnavano alcuna forma che potesse avere un senso, è vero, ma qualcosa di estremamente simile era lì, davanti ai miei occhi. Avete capito dove?

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Esattamente nel palmo della mia mano.

Inutile dire che per l’emozione, per poco quello strano oggetto non mi è caduto di nuovo nel secchio di acqua terrosa.

 Ed è a questo punto che possiamo provare a raccontare l’altra storia, quella della sua vita “antica”, quella che vorrebbe tentare di ricostruire il “come” e magari pure il “perché” qualcuno un giorno ha creato quell’oggetto. Avviene così, in maniera quasi naturale, la fantasia da un lato, il dato oggettivo dall’altro, ipotesi dopo ipotesi, fino a immaginarci… un quartiere povero fatto di casette rustiche che di giorno fungevano anche da botteghe perché lì abitavano degli artigiani, una strada di fronte e un cortile sul retro, un vasaio che lavora al tornio, sporco di argilla fino ai gomiti. E poi ci piace immaginare lui, o magari era una lei, sì, una bimba con gli occhi scuri e vivaci e tanta voglia di giocare, di sporcarsi anche lei le mani di terra con l’intento di aiutare il padre o di creare un set di oggetti di uso domestico per la sua bambola, chissà… Sì, ci doveva essere proprio bisogno di una lucerna, perché “…io no, ormai sono grande, ma la mia bambola di notte non riesce mai a dormire perché ha paura del buio, lei… e così tiene sveglia anche me. Magari se le lasciamo una piccola luce accesa, sta più tranquilla”.

Come si può dirle di no? E allora, su, abbandoniamo il tornio per cinque minuti “…prima di tutto prendiamo un po’ di argilla e iniziamo a lavorarla: la premiamo sul tavolo con il palmo della mano, bravissima, e adesso alziamo i bordi della lucerna, con le dita così, perfetto!”.

“Quando proviamo ad accenderla?”

“Dobbiamo prima cuocerla insieme agli altri vasi e poi direi che invece che metterci l’olio dentro potremmo fare un forellino, qui in mezzo, dove poter infilare un bastoncino per farlo bruciare. Alla tua bambola basterà quella piccola luce, non credi?”

“Mmmh, sì, credo che possa andare bene!”

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Mi piace lasciarli così, un padre e una figlia che insieme si sporcano le mani e che quel giorno ci hanno lasciato un’impronta (in tutti i sensi, sì) che ha attraversato i secoli, è arrivata fino a noi e ha saputo farci emozionare e immaginare un pezzetto di vita quotidiana attraverso un gesto che è diventato “eterno”.

E qualcuno avrebbe il coraggio di dirmi che tutto questo non è “prezioso”?

Ma soprattutto, voi che ne pensate? Come vi piace immaginare che sia nato quest’oggetto?

Samanta Mariotti

 

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