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C’era una volta un uomo

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Un mattino gli abitanti dell’isola trovarono un uomo sulla spiaggia, là dove le correnti e il destino avevano spinto la sua zattera. L’uomo li vide e si alzò.
Non era come loro.

 

 

Ne L’Isola di Armin Greder (traduzione di Alessandro Baricco per Orecchio Acerbo editore) un uomo è scampato al mare. L’uomo non possiede nulla, non ha nulla con sé, eppure nella sua nudità abitano almeno due mondi: il primo è quello che si è lasciato alle spalle, là dove era la sua casa, le strade che percorreva, gli alberi, gli angoli di marciapiedi o sassi o cancelli che conosceva, l’odore famigliare dell’aria.

Ciò che l’uomo ha lasciato dietro di sé

Lavorare alla nostalgia significa lavorare al dolore del ritorno, quando il ritorno è impossibile.

Ho lasciato la Romania da piccola all’età di 5 anni, però mi ricordo tutto, la mattina mi svegliavo col rumore delle galline che volevano il mangime e sentivo il mio cagnolino abbaiare e poi mi saltava addosso, e poi con la nonna andavo al mercato in centro dove mi ricordo l’odore dei fiori di un colore lilla indimenticabile poi ritornavo a casa e andavo nell’orto insieme al nonno e poi la nonna mi metteva una tazza di latte e il panino con il burro e la marmellata, mi manca tutto di quel posto…

 

Mi manca Napoli, quella volta a sette anni con i miei cugini e mio nonno che non c’è più, l’odore della pizza, il sapore della mozzarella, la bellezza dei monumenti e del mare limpido, la gente gioviale, le ville, il Vesuvio, i miei oggetti, il sole, non dimenticherò mai quel posto.

 

Voglio che torni, ma so che è impossibile. Sto parlando di mio nonno. Mi ricordo che mi portava sul trattore, eravamo legati, mi ricordo delle sue scorpacciate di biscotti inzuppati nell’acqua, mi mancano le sue lamentele, e mi ricordo che il giorno della sua morte, mia madre, appena arrivata a casa, con gli occhi lucidi, mi disse: il nonno se n’è andato, e capii subito e il mondo mi crollò addosso. Mi stesi a faccia in giù sul divano a piangere, rimasi lì non so quanto tempo ma ho il ricordo della chiazza sul divano, le mie lacrime, e ora, molto spesso, mentre sono sul divano mi torna in mente quella chiazza di bagnato e un po’ mi rattristo.

 

Ciò che l’uomo ha portato dentro di sé

Il secondo mondo è l’eredità del suo vissuto e la somma, sempre perfettibile, di ciò che ricorda, di ciò che pensa e sente. 
L’incipit di Nel mare ci sono i coccodrilli, di Fabio Geda, racconta di una madre che nel dire addio al figlio, la notte prima che lui tenti di abbandonare l’Afghanistan per approdare in altre terre e iniziare un’altra vita, consegna al figlio ciò di cui avrà bisogno e sono regole su massimi sistemi dell’esistenza perché dell’esistenza del figlio non potrà più vedere né sapere nulla, perché quello è un addio (pp. 9-10).

Il fatto, ecco, il fatto è che non me l’aspettavo che le andasse via davvero. Non è che a dieci anni, addormentandoti la sera, una sera come tante, né più oscura, né più stellata, né più silenziosa o puzzolente di altre, con i canti del muezzin, gli stessi di sempre, gli stessi ovunque a chiamare la preghiera dalla punta dei minareti, non è che a dieci anni – e dico dieci tanto per dire, perché non è che so con certezza quando sono nato, non c’è anagrafe o altro nella provincia di Ghazni – dicevo, non è che a dieci, anche se tua madre, prima di addormentati, ti ha preso la testa e se l’è stretta al petto per un tempo più lungo, più lungo del solito, e ha detto: Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo.

Enajat promette alla madre che non lo farà: non userà droghe, non ucciderà, non ruberà. Poi, ancora una cosa importante da ricordare, l’ultima:

Ecco. Anche se tua madre dice cose come queste e poi, alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni come la luna, alla cui luce è possibile mangiare, la sera, e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino la carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto, a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena – be’, anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose con una voce bassa e strana, che ti riscalda le mani come brace, e riempie il silenzio di parole, lei che è sempre stata così asciutta e svelta per tenere dietro alla vita, anche in quell’occasione è difficile pensare che ciò che ti sta dicendo sia: Khoda negahdar, addio.

Lavorare sull’eredità che ognuno porta dentro di sé è anche fermarsi a capire che cosa, fin qui, della vita, è diventato un bottino di acquisizioni, di certezze, di conquiste che a nostra volta saremmo in grado di passare all’altro.

 

Io ho la certezza che ho imparato a difendermi, ma non picchiando,rispondendo. Ho imparato che la vita, male o bene che vada, dobbiamo imparare ad affrontarla. Ho imparato che se qualcuno ti dice qualcosa è per il tuo bene. Il mio desidero è di far capire a una persona che cosa sta facendo di sbagliato e di smettere di fare di testa sua e di capire gli altri, di ascoltare, di non sgridare. Per difendersi non deve prendere un avvocato ma parlare con la persona, poi il mio altro desiderio è di aiutare le persone più povere perché vengono maltrattate solo perché non sono della nostra religione, il colore della pelle è diversa o semplicemente perché fanno qualcosa di diverso da noi e quindi voglio aiutare più persone possibili. Un altro desiderio è di abolire la pena di morte in alcuni paesi e che le donne vengano considerate come gli uomini perché in fondo siamo tutti uguali.

 

Io ho capito che nella vita bisogna pagare tutto anche l’aria che si respira; e per pagare bisogna lavorare, mio padre lavorava 8 ore al giorno e io quando gli chiedevo di venire a pescare con me, lui la maggior parte delle volte mi diceva no perché doveva lavorare. Ma dalla terza elementare ho capito che ci sono i doveri oltre ai piaceri nella vita. Appena cominciata la quarta elementare ho notato che avevo una qualche affezione alla scienza; e nella quinta ho pensato: perché non divento scienziato? E lì è scattata una scintilla, era quella del desiderio di diventare scienziato. Infatti per Natale tre anni fa ho chiesto un microscopio e mia sorella una valigetta per gli scienziati. Allora io e mia sorella di solito scendiamo nelle scale di casa mia e catturiamo una farfalla, torniamo in casa e la analizziamo.

 

Nella vita ho imparato che anche se si è timidi, bisogna chiedere aiuto quando si è in difficoltà, che bisogna lavorare sodo per meritarsi il risposo, che non conta essere forti o veloci e che c’è una spiegazione razionale a tutto. Io sogno di aiutare tutti i bisognosi a dargli una casa.

 

Io so che la cosa più ingiusta della vita è che ci sono persone da censura persone da doppia censura e persone da tripla censura e persone che da quanto sono da censura non si meritano neanche la censura. Ci sono anche cose o persone che ti fa piacere incontrare, cose o persone che adori o addirittura, come a molti succede, persone o cose che ti fanno battere il cuore.

 

L’uomo è uno straniero e fa paura

Gli abitanti dell’isola fissano a lungo lo straniero e iniziano a discutere su cosa sia meglio farne: rispedirlo da dove è venuto? Dargli soccorso? Accoglierlo? Il pescatore propone di raccoglierlo e decidono così di chiuderlo in una stalla e tornare alla loro vita di prima. Finché un giorno l’uomo arriva al villaggio.

L’uomo è solo affamato e cerca di spiegarlo. Gli abitanti dell’isola pensano che sia meglio dargli un lavoro, ma alla fine prevale il senso di paura e di disgusto e dopo avergli dato da mangiare lo rinchiudono nella stalla. Ma la verità è che da quel momento il pensiero dello straniero non li lascia più in pace.

Lavorare alla paura è lavorare a ciò che, spesso, non conosciamo. Il disgusto è il dato fisico che ci ricorda che la paura si impossessa del nostro corpo, che ciò che ci succede, quando abbiamo paura, è una incapacità di gestire e governare le nostre reazioni fisiche. Per paura ci blocchiamo, sudiamo, abbiamo le vertigini, i brividi, per paura diamo spinte e calci, per paura il cuore impazzisce e il respiro accelera. Lavorare alla paura del male – mostro, presenza maligna, spazio vuoto o buio – è anche pensare all’origine di questo male, alla sua natura. Questo brano è alle pp.424-25 di It, di Stephen King:

Richie si passò la lingua sulle labbra e per un momento non disse niente. poi chiese: «Che cosa faresti se non fosse un uomo Billy? Se fosse davvero una specie di mostro? Se esistessero davvero cose del genere? Ben Hascom ha detto che era la mummia e che i palloncini volavano controvento e che non aveva ombra. E c’è la foto nell’album di Georgie. Quella, o ce la siamo immaginata o era una magia, e allora lascia che ti dica, amico mio, che io non credo che ce la siamo immaginata. Di certo le tue dita non se la sono immaginata, no?»
Bill scosse la testa.
«Dunque, che cosa facciamo se non è un uomo, Billy?»
«Dovremo p-p-pensare a q-q-qualcos’altro.»

It non è un uomo. Eppure l’indifferenza degli abitanti di Derry lo tutela; non è un uomo, eppure cambia forma, rispondendo alle paure che abitano già in chi lo incontra. It non è umano, ma si ciba degli uomini e la natura umana è parte del suo essere. Il male, ovvero la possibilità stessa del male, di ciò che è avvenuto, di ciò che accade nel presente, oppure di ciò che potrebbe accadere in futuro, è anche dentro di noi: si tratta, infine, di una nostra scelta.

 

 

La mia paura. Sì la mia paura non è reale. È un essere, o credo che lo sia, che cambia, muta la sua forma. Di notte la paura diventa un uomo nero pronto a prendermi. Tutti i giorni è quel ragazzo che ti uccide con i gesti e con le parole.

Da piccola avevo una paura tremenda di separarmi da mia madre non potevo andare in giardino da sola, mia mamma doveva stare lì con me, anche se lei era in bagno io la aspettavo alla porta, se venivano gli zii a casa io giocavo con gli altri però stavo accanto a mia mamma. Questa paura deriva da un’infanzia di terrori e però oggi spesso esiste più il pensiero della paura che ho passato nella mia infanzia, ora è diverso, questa paura l’ho affrontata grazie alle persone che so che dentro non sono cattive e mi salutano, nell’andare a casa da sola e dire: ’va beh, tra poco arriva mamma’.
Sto bene perché ogni giorno mi sento bene dentro, anche se sembro dal mio aspetto esterno triste, ma dentro, proprio dentro di me, c’è quella grande briciola di felicità.

Io ho paura dell’acqua, quella cosa profonda fredda, non ho paura della riva quel posto molto vicino alla sabbia, ho paura di quando il mare comincia a farsi più scuro, più profondo, ho paura degli animali che lo popolano e che io immagino siano sotto di me, la mia non è paura di affogare, o quasi, ma quella di essere sovrastata, attaccata, questa paura non è passata.

 

 

 

 

Lo straniero è stato consegnato al mare. Nessuno gli ha chiesto il suo nome, che cosa aveva fatto e da dove veniva, per conoscerlo.

Incontrarsi e conoscersi.

Si può provare a tracciare il perimetro della nostra identità pensando alle cose che abbiamo fatto e facciamo, e alle cose non che abbiamo mai fatto, come in Un ricordo di Natale (in La forma delle cose) di Truman Capote, in cui Buddy, che è il narratore e che all’epoca dei fatti narrati ha sette anni, descrive così la sua amica del cuore:

Oltre a non essere mai andata al cinema lei non ha mai mangiato in un ristorante, viaggiato a una distanza superiore alle cinque miglia da casa, ricevuto o spedito un telegramma, letto qualche cosa che non fossero i fumetti o la Bibbia, adoperato cosmetici, bestemmiato, lasciato andar via affamato un cane affamato. Ed ecco alcune delle cose che ha fatto e che fa: ha ucciso con una zappa il più grosso serpente a sonagli che si sia visto in questa zona (sedici sonagli), annusa tabacco (di nascosto), addomestica colibrì (a titolo di prova) fino a farseli stare appollaiati su un dito, racconta storie di fantasmi (crediamo entrambi ai fantasmi) così paurose da agghiacciare in pieno agosto, parla da sola, passeggia sotto la pioggia, coltiva le più belle camelie della città, conosce la ricetta di ogni vecchio metodo di cura indiano ivi compresa una formula magica per far sparire i porri.

 

Io non ho mai fatto tante cose e molte le vorrei fare, ma comunque, non ho mai detto una cosa sensata con i miei parenti, non ho mai litigato con mia madre, non riesco a stare vicino a una persona che mi sta antipatica, io non riesco a fare la seria. Parlo da sola (c’è chi non lo fa) dico sempre cose serie quando nessuno mi ascolta, ho messo solo una, al massimo due volte una
gonna e non sono mai e poi mai uscita senza il cellulare dalla prima media, mi chiamo Samira.

 

Non ho mai detto parolacce non ho mai visto un film horror, non mai letto fumetti e non ho potuto conoscere i miei bisnonni. Le cose che faccio spesso invece sono correre sotto la pioggia con le mie amiche, bagnarmi sempre la maglia ogni volta che bevo, dico la verità, esprimo sempre i miei dubbi, faccio sempre i compiti, io mi chiamo Asia.

 

Quando vado a letto, di nascosto leggo fino a mezzanotte. Faccio il simpaticone e quando trovo un cane o un gatto per strada lo accarezzo. Quando vado a calcio do tutto me stesso per essere convocato nelle partite. Dopo scuola faccio sempre i compiti, alcune volute bestemmio, ma dopo chiedo sempre scusa a Dio. Non faccio mai più del dovuto, e soprattutto non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno. Non sopporto la gente che si dà delle arie, non ho mai fumato. Il mio nome è Matteo.

 

Nella mia vita ho fatto delle certe azioni buone e brutte. Quando qualcuno fa delle certe cose sbagliate dopo si rende conto di quello che ha fatto e si pente molto che gli verrebbe voglia di andare davanti a quella persona, mettersi in ginocchio e chiedere mille volte scusa, ma quando fa delle buone azioni pensa ‘che giornata meravigliosa’ contento. Il mio nome è Joussef.

L’Isola e le storie che l’hanno attraversata sono state raccontate dai ragazzi di 11 e 12 anni della Scuola secondaria inferiore ″Olivieri″ di Pesaro.

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