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L'Antologia di Spoon River andrebbe letta a 12 anni

Perché bisognerebbe leggere l'Antologia di Spoon River a dodici anni? Perché è un manuale di istruzioni con un codice che decodifica la vita
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Immagine da: http://iperspoonriver.altervista.org/home.html

Ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River quando avevo dodici anni, dopo essere inciampata per caso in alcuni versi di “Lucinda Matlock” – forse la poesia più conosciuta dell’intera raccolta – nel mio libro di letteratura di seconda media. Quei versi – forti, potenti, crudeli, veri e bellissimi – mi avevano colpita come fa il vento freddo d’inverno, quando ti soffia in faccia fortissimo e per qualche istante ti manca l’aria e non riesci a respirare. Dovevo assolutamente leggere l’intero libro.

L’Antologia di Spoon River – per i pochi che ancora non la conoscono – è l’opera prima di Edgar Lee Masters, poeta e scrittore americano, pubblicata agli inizi del Novecento e che racconta, attraverso un’affascinante via di mezzo tra poesia e prosa, quella che è stata la vita delle persone sepolte in un piccolo cimitero di provincia. Agli occhi della me stessa dodicenne di allora, i personaggi della raccolta avevano qualsiasi cosa per risultare ipnotici: prima di tutto erano morti – e quella per me ai tempi era una condizione invidiabile. Facevo una netta distinzione tra il morire – una cosa brutta, terrorizzante, spaventosa tanto da non riuscire a pensarci – e l’essere già morti – una situazione tutto sommato di quiete e riposo.

Avevo già intuito che la vita, lungi dall’essere quel cammino in discesa teneramente illuminato da un sole primaverile che tutti tentavano di darmi a bere, era in realtà un susseguirsi di problemi, momenti scomodi, lotte, delusioni, paure e ansie: insomma, in una sola parola, faticosa. I morti, invece, pur con tutte le limitazioni che la loro condizione comportava, erano esclusi da una serie notevole di sbattimenti: la scuola, le prese in giro, il fatto di essere scelti sempre per ultimi quando si dovevano fare le squadre di palla spagnola – coi due capitani che litigavano per chi era costretto a prenderti – e infine la semplice ma notevole fatica di dover mettere giù i piedi dal letto ogni mattina.

Se qualcuno ora si è fatto l’idea che fossi una preadolescente pessimista e dall’animo tormentato, non è decisamente lontano dal vero, ma il punto è che molti dodicenni – di allora e di oggi – lo sono: hanno paura, la vita a volte sembra una cascata altissima e veloce che ti si rovescia addosso e sono stanchi – non vogliono proprio morire, ma magari pensano di chiudere gli occhi una sera e non riaprirli più. È così: la vita è a volte bellissima e a volte terribile, la paura di non farcela è naturale e negare tutto questo fingendo che i ragazzini debbano essere sempre felici e allegri, a mio avviso, produce più danni che benefici.

Un altro punto a favore dei protagonisti di Spoon River è che sono persone normali. Fino a quel momento, i morti meritevoli di finire sui libri e di essere ricordati anche dopo parecchio tempo dalla dipartita erano tutti tizi piuttosto importanti, che si erano quantomeno distinti per qualcosa di significativo: gli homo sapiens per essere stati per l’appunto i primi uomini, Tutankhamun per essere stato il faraone più grande d’Egitto, Cesare perché un giorno si era messo a giocare coi fiammiferi e la cosa gli era sfuggita di mano. Ma gli abitanti di Spoon River?  Negozianti, vagabondi, casalinghe, maestre di scuola, ubriachi, pazzi: tutte vite piccole, misere, comuni – eppure comunque meritevoli di essere ricordate e raccontate. Per primo, questo libro che parla di morte e di morti mi ha fatto capire quanto il vero valore della vita stia nel viverla, appunto, e tirare con coraggio fino in fondo, facendo il meglio che puoi con quello che ti è stato dato. Perché tutti, se ci pensiamo bene, avremo qualcosa da raccontare.

Terzo, perché le storie delle loro vite sono splendidamente scritte e piene di parole grandi e belle e di speranza. Sì, anche quelle più disperate e buie. Edgar Lee Masters è molto sincero e non risparmia niente della vita dei suoi personaggi, le sue poesie parlano di libertà e ribellione e fallimento e anticonformismo – non dimentichiamo che Fernanda Pivano, colpevole di aver tradotto la raccolta in italiano, finì in carcere – ma proprio per questo ognuno di noi riesce a trovarci dentro qualcosa di sé, fossero anche le cose più brutte di cui ci vergogniamo. Perché la vita è anche questo, gli esseri umani sono anche questo, ed è bene prenderne atto subito. I morti di Spoon River, imperfetti e perdenti, sono in realtà vivissimi – niente a che vedere con la perfezione di plastica, incapace di suscitare qualsiasi tipo di emozione che non sia la noia, che tutto oggi ci spinge a desiderare di emulare.

Infine, si tratta di un testo indispensabile per comprendere appieno lo stile particolarissimo della poesia americana, se paragonato a quella europea classica. Prima di leggere Auden bisogna passare da Edgar Lee Masters, se si vuole capire da dove viene quella voglia di raccontarsi così differente dalla nostra.

Perché, quindi, bisognerebbe leggere l’Antologia di Spoon River a dodici anni? Perché è bella, perché fa piangere, perché fa sorridere, perché ti fa battere il cuore nel petto come un tamburo e allo stesso tempo ti sussurra dolce e pensierosa come un rumore di sottofondo nel cuore della notte. Perché è, a suo modo, un manuale di istruzioni per decodificare la vita e tutti sappiamo bene quanto avremmo voluto averne uno, a dodici anni.

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