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L’ossessione valutativa insegnerà a scrivere e pensare meglio alle nuove generazioni? Tanti compiti, tanti anni a studiare grammatica, le prove Invalsi e pure sembra di peggiorare sempre. Basteranno più dettati a ripristinare il rigore? Basteranno le procedure normative di autocontrollo valutativo in ogni scuola a creare in docenti e discenti italiani responsabilità e autonomia?
La scrittura dà potere sul corpo e sul tempo, è (stata) la tecnologia più potente, che fa marciare, fa morire, fa pregare. Accedervi significa accedere alla cultura, partecipare alle contraddizioni e alle lotte, alle idee e alla storia. A volte significa anche tribolare, penare e rinunciare alla felicità. Devi avere motivazione e scopi e certezza nel proprio valore per fare la fatica che richiede impossessarsi della scrittura. Se non ti appartiene per nascita, per legittimo legato, la presa di parola costa. Ci vanno desiderio e lavoro per apprendere la disciplina dell’espressione, e le discipline. Ambiti comuni in cui essere riconosciuti e mettersi alla prova.  Quali motivazioni si danno nelle classi di scuola primaria? Quali reali prove ti danno misura di te durante la scuola media?

Queste le domande che si pone Federica Lucchesini in un articolo dedicato alla scuola sul numero di ottobre della rivista “Asini”.

La scuola e l’università

Alcuni giorni fa, una collega di scuola media mi parlava della necessità di costruire una collaborazione continuativa tra primaria e secondaria inferiore al cui centro stesse la crescita del bambino e poi del ragazzo. Fulcro di questa continuità, dovrebbe essere, anche, un senso condiviso dell’esercizio della lettura e della scrittura; mi ha fatto leggere a tal proposito un tema scritto da un ragazzo di prima media che scopre la lettura come esperienza divertente, un tema che doveva essere una lettera alla maestra di primaria per raccontare i primi mesi della nuova avventura scolastica. Di temi così, dice, dove i ragazzi sentono per la prima volta che la lettura diverte, affascina, interessa, ne legge molti ogni anno e così sente nascere l’urgenza di un confronto con le colleghe della primaria sul cosa sia la lettura e sul come venga attraversata dai bambini prima che arrivino nelle classi di secondaria inferiore.
Aggiungo una considerazione: durante i laboratori di primo e quinto anno a Scienze della formazione primaria dell’Università di Urbino, chiedo ai ragazzi una restituzione del lavoro svolto, una sorta di attraversamento personale di quello che è stato fatto e di ciò che ha significato per ognuno.
In queste relazioni i ragazzi si raccontano spesso come lettori deboli o non lettori; alcuni scrivono della iniziale difficoltà di scrivere, del “blocco” che subiscono e poi della liberazione e della crescita che affrontano strada facendo; altri confessano la difficoltà esplicita di affrontare un racconto quando questo sia racconto di sé. Insisto tuttavia molto sul racconto di sé, perché il vissuto è una delle risorse fondamentali cui un maestro attinge per creare il proprio lavoro, insieme alle competenze e al pensiero metaforico, all’immaginazione.
Se un maestro non è in grado di pescare dal suo pozzo, come potrà permettere ai bambini di pescare dal proprio?

La lingua è viva…

Così torno alle domande delle Lucchesini e provo a dire che una delle risposte possibili è nella forbice di cui mi parlava la professoressa delle medie, una forbice che si apre sempre più netta tra un tipo di educazione alla lettura e alla scrittura dove lettura e scrittura sono intese come competenze, e un tipo di educazione alla lettura e alla scrittura dove esse siano intese come risorse.

A scuola, se la porta che apre il cammino viene aperta in direzione della risorsa, la competenza sulla strada arriva; se viceversa viene aperta in direzione della competenza, la risorsa per strada si perde, o nemmeno la si incontra.

Qualche anno fa contattai uno scrittore famoso per raccontargli che i ragazzi lavoravano su di sé partendo da uno dei suoi libri, e lo scrittore famoso, dicendo delle cose sulla scrittura e sull’educazione alla lettura a scuola, dove gli capitava di tenere incontri con ragazzi delle superiori, disse anche che una sua zia, insegnante di italiano in un liceo, giudicava la sua scrittura brutta, sciatta e non grammaticale.

L’italiano corretto, o dovrei dire, sulla scorta degli studi di De Mauro, Benedetti, Serianni e Colombo, ipercorretto che si insegna a scuola è l’italiano erede dell’origine letteraria della nostra lingua e dell’autorità della sua tradizione.

Una lingua è qualcosa che vive. Le persone anche. Queste persone vive cercano di usare bene una lingua viva, quindi bisogna che ci sia flessibilità. Muovendosi in reciproca libertà, devono trovare la superficie di contatto più efficace. In realtà è qualcosa di ovvio, ma nel sistema scolastico questo concetto non è affatto evidente. Il che mi pare una disgrazia.

Queste poche righe vengono da Il mestiere dello scrittore di Murakami, e riguardano l’insegnamento dell’inglese nelle scuole, dove l’essenziale è “ricordare quanti più vocaboli difficili si poteva, imparare l’imperfetto del congiuntivo, conoscere il giusto uso delle preposizioni e degli articoli”, in vista del superamento dei concorsi d’ingresso al livello d’istruzione successivo previsti dal sistema scolastico giapponese, ma credo siano applicabili all’insegnamento di qualunque lingua.

… se è viva la letteratura

Ora, io credo fermamente al concetto di lingua viva e al leggere e allo scrivere come condizioni identitarie dell’individuo e tuttavia credo anche che stiamo correndo un rischio maggiore dell’avere sempre più divaricata questa forbice tra competenza e risorsa, tra strumento e funzione, e il rischio si forma sulla constatazione che i nuovi maestri, già lontani dalla lingua come risorsa, appartengono a una generazione che non ha ereditato il senso dello studio dei classici come bagaglio culturale imprenscindibile. Non leggono gli autori moderni e contemporanei, ma non leggono o non hanno letto (non li hanno interiorizzati, non hanno generato senso per la loro formazione) neanche Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi e Manzoni.

Sono i nuovi maestri che vedono soddisfatto il senso della letteratura dal manuale scolastico, che trovano lì dentro e nelle riviste specializzate, tutte le risposte che cercano sulla programmazione che diviene giocoforza universo didattico e formativo tout court.

Se non rimpiango le zie insegnanti che pensano che gli scrittori scrivano male – non sarei neanche in grado di giudicare quanto gli stili degli scrittori italiani oggi nelle librerie siano omologati o sciatti – penso che sia arrivato il momento di cambiare il canone letterario e di difenderlo per riformulare una partecipazione alla letteratura come un fatto della vita: è una necessità non più rimandabile.

La letteratura è il campo di battaglia, il crinale su cui ognuno partecipa in quanto lettore e scrittore, in quanto parlatore e ascoltatore, dell’esperienza del vivere, e credo che una delle spie del disarmo sia, ancora e sempre, mi perdonerete se mi ripeto: la perdita del corsivo.

Sempre più bambini e ragazzi scrivono in stampato, e anche tra i futuri maestri il corsivo è, seppur ancora accessibile, poco usato e dunque non più famigliare, e ci sono professori che in secondaria inferiore chiedono i testi di italiano scritti al computer perché ‘siamo in un’era tecnologica’ e davanti all’ignoranza onestamente riesco solo a stare zitta.

Di fatto, stiamo perdendo, o abbiamo già perso, il corpo dell’animale parlante che siamo, e così temo che stiamo perdendo, o abbiamo già perso, la possibilità di comprendere l’altro, di sentirci impegnati dal corpo dell’altro.

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