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Le archeologhe che (r)esistono

Non esistono mestieri solo per uomini o solo per donne, ma esistono mestieri che alcuni, uomini e donne, sanno e amano fare e altri no. Il mestiere dell'archeologo non fa eccezione.
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Sono fortemente convinta del fatto che non esistano mestieri per soli uomini o per sole donne, ma vi sono mestieri che alcuni, uomini e donne, sanno e amano svolgere e altri no. Non si tratta di una questione di genere ma di volontà, impegno, forza, passione, attitudine, dedizione e ciascuno di questi elementi può essere presente, con maggiore o minore concentrazione, in tutti e tutte.

Sicché, perché parlare solo di muratori e non anche di ‘muratrici’, di idraulici e non di ‘idrauliche’, e di contro di casalinghe e non di ‘casalinghi’, di estetiste e non di ‘estetisti’? Persino la lingua italiana sembra essersi schierata, inspiegabilmente, a favore del ‘maschile’ o del ‘femminile’ di alcune parole, come se un genere doppio non fosse possibile, come se davvero ci fossero professioni che gli uomini e le donne non possono e non devono fare, per una qualche astrusa e imprecisata ragione.

Il problema in verità non sono le parole, che non hanno colpa, e che si possono pur sempre sostituire, inventare, cancellare… Semmai il vero problema è nella mente di chi le parole le usa e le scrive, le impone o le vieta agli altri e pensa che, così come è giusto che sia un uomo a coltivare la terra, riparare un tubo rotto o essere Presidente della Repubblica e una donna invece a pulire un pavimento, vendere profumi o cucire calzini, è altrettanto auspicabile e decoroso che un bambino giochi con i trenini e i soldatini e una bambina con le Barbie e i peluche, che l’uno tiri calci ad un pallone e l’altra balli sulle punte, che l’uno vesta di blu e l’altra di rosa. Perché? Perché, mi chiedo e vi chiedo, nelle favole è sempre il principe a svegliare la principessa con un bacio e non il contrario, e nelle pubblicità le bimbe cucinano biscotti con le mamme e i bimbi giocano a palla in giardino con i papà, e i libri… ci sono quelli di maghi e dinosauri per i maschietti e di fate, streghe e regine per le femminuccie? Basta guardarsi attorno, leggere un giornale, entrare in una scuola o in un supermercato, camminare per strada per accorgersi che ci sono cose che gli uomini non oserebbero fare mai e altre che, se fatte da una donna, suonano strane, inopportune, sconvenienti, come macchie di cioccolato su un vestito bianco.

In archeologia è la stessa cosa, si parla di archeologi e quasi mai di archeologhe, persino quell’impostore di Indiana Jones non avrebbe avuto lo stesso successo se fosse stato una donna, perché in quel caso più che il coraggio e l’astuzia se ne sarebbe apprezzato magari il colore degli occhi o la dolcezza del sorriso e tutto il resto sarebbe finito in secondo piano. Eppure, su tutti i cantieri di scavo a cui ho partecipato, io ho visto archeologhe usare il piccone, spalare la terra, spingere una carriola, resistere al caldo rovente o al freddo pungente con più tenacia, determinazione e vigore dei colleghi maschi e non sottrarsi a nessuna fatica o responsabilità perché incapaci di sostenerla.

Scrive Astrid D’Eredità, un’archeologa tarantina caparbia e combattiva come tutte le donne del Sud, «Pochi lo sanno, ma dietro la costruzione di grandi opere per la collettività, dietro le autostrade, i centri commerciali, i gasdotti c’è il lavoro di migliaia di donne che trascorrono mesi in zone isolate delle periferie delle metropoli. Lavoratrici che sondano palmo a palmo il terreno per consentire ai cantieri di proseguire in tranquillità. Sottopagate, con contratti fasulli, non di rado scambiate per prostitute e inseguite da chi non riesce neppure a immaginare che una donna possa svolgere un lavoro del genere. Donne che hanno perso i loro bambini in cantiere, perché costrette a lavorare in gravidanza; mamme che disegnano le piante di scavo a casa, con un occhio al Pc e l’altro al quaderno dei compiti dei figli seduti allo stesso tavolo».

In una “sera di rabbia e pensieri”, nel marzo 2011, Astrid decide di contattare le archeologhe che ha conosciuto durante gli studi o il lavoro o semplicemente in rete e che, come lei, vivono una situazione di quotidiana incertezza che va ben oltre la precarietà. Sì perché le archeologhe in Italia sono davvero tante, «… circa il 70 per cento dei professionisti impiegati in archeologia è donna, ma c’è un misero tre per cento di professioniste che rimane saldo al timone della propria impresa a dieci anni dal debutto. La maggior parte delle archeologhe, infatti, abbandona la carriera verso i 30-32 anni: le motivazioni sono le più varie, ma sembrano prevalere la scarsa sicurezza economica, la candidatura al precariato a vita, il desiderio di maternità». Assieme, Astrid e le altre fondano il movimento delle “Archeologhe che (r)esistono”, un gruppo che comprende archeologhe di tutta Italia di età compresa tra i 20 e i 55 anni e che si incontrano online, “in un luogo di scambio e talvolta di scontri” per raccontarsi le storie personali, i sacrifici, i bisogni, i propri pensieri e per sostenersi a vicenda, perché tante donne che si mettono assieme e uniscono cuore e cervello formano una grande forza capace di resistere contro ogni forma di discriminazione e isolamento.

«Indiana Jones è solo un film. La realtà siamo noi» dice Astrid. La realtà è fatta di uomini e donne che hanno lo stesso diritto di scegliere e praticare la professione, qualunque essa sia, sognata da bambini, per cui hanno studiato e si sono sacrificati e questo diritto non ha sesso, colore, bandiera, età, limite alcuno.

Come sempre i bambini sono più bravi dei grandi a spiegare le cose che gli adulti puntualmente complicano. E allora vi lascio con questo video bellissimo ("Bomba libera tutti"), che a me ha strappato un sorriso (genere maschile) e una lacrima (genere femminile).


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