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Insegnare a leggere a voce alta

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La lettura dentro la letteratura 

Insegno letteratura italiana a ragazzi che presto saranno maestri di scuola primaria, ragazzi che, a parte rari casi, non hanno molta famigliarità con l’esperienza del testo letterario e della lettura. Leggono saggi e testi di studio, ma pochi o pochissimi hanno l’abitudine di leggere romanzi, racconti e poesie.
Il problema che mi pongo ogni volta che inizio il corso è un problema, come è ovvio, di obiettivi. Mi chiedo, per prima cosa, quale tipo di esperienza letteraria possa rimanere o, nella più alta delle aspettative, possa essere utile nella loro crescita individuale, in prospettiva degli studi e delle esperienze che saranno del loro lavoro futuro. Mi chiedo, dentro questo perimetro d’azione che scelgo, quale sia il senso dell’esperienza letteraria dal punto di vista della funzione educativa e didattica dell’essere maestri.
Molto spesso il mio insegnare letteratura è, di fatto, insegnare come insegnare letteratura, e dunque mi impongo un segno ulteriore di riflessione, ovvero: quale letteratura nella scuola primaria?
Da questa domanda, nel corso degli ultimi anni, ho dovuto costruire percorsi significativi che schiudessero un senso più nascosto del fare letteratura – del porsi il problema non tanto di cosa essa sia, ma se abbia un senso o una funzione nella nostra vita – risalendo fino al senso stesso del prendere parola, dell’ascolto, della formulazione del pensiero, alla ricerca di una letteratura che era comunque sempre stata quella roba lì: ascolto, parola, formulazione del pensiero.

Quello che è accaduto, di fatto, è stato il progressivo e sempre più ampio impegno verso la lettura a voce alta di opere letterarie, e un sempre più convinto percorso formativo sulla voce individuale degli studenti. Avere consapevolezza della propria voce: è dentro questo perimetro che va a situarsi l’oggetto letterario e la relazione opera-lettore.

Il testo scritto/Il testo letto

In un articolo su Baldini, Umberto Fiori ricorda lo scollamento in atto tra il carattere del testo e quello della sua performance, facendo alcuni esempi di letture autoriali, tra cui Ungaretti, Saba e Montale.

Il contrasto non è solo di stile, di tono; colpisce, tra il testo scritto e quello costituito dalla voce e dalla presenza dall’autore, una disparità che potremmo chiamare compositiva. Mentre nei versi riconosciamo un oggetto estetico integralmente formato, prodotto da una volontà creativa rigorosa, la dizione del poeta, la sua mimica, la sua voce, ci si presentano invece come elementi relativamente accidentali, provvisori, intercambiabili, il cui rapporto con l’opera, col testo scritto, non è stato pensato, progettato, controllato con altrettanto rigore.

Fiori mette poi in luce la diversità della lettura baldiniana, sempre così calzante, rispetto al testo scritto, essendo, quello baldiniano, per natura, per vocazione, per effetti, un discorso già di per sé drammaturgico.

La composizione scritta ha una sua voce interna che suona dentro la voce silenziosa di un lettore silenzioso; ma quando il testo – qualsiasi testo (è possibile tradire anche un testo argomentativo o espositivo, non solo letterario, nella lettura a voce alta) – passa alla lettura davanti a un pubblico, quando, quel testo deve vestirsi di una voce che risuona con tutti gli accenti e il ritmo di un discorso vivo, allora la composizione stessa del testo viene a modificarsi.
Ed è il motivo principale per cui l’indicazione preliminare di ogni percorso di letture a voce alta è che la lettura vada preparata e mai improvvisata.
La composizione del testo letto a voce alta può essere modificata anche nel tempo, via via che le performance si ripetono. Più volte ho modificato un testo perché risuonasse nel modo più preciso e più giusto, perché tenesse vivo l’ascolto in quel modo particolare dentro il quale si realizza la fede nell’altrove della storia.
L’identità della voce che legge è l’identità della storia letta, scrive la Bernardi in Infanzia e fiaba, e non potrei essere più d’accordo, e non solo per la fiaba.
Per questo narrare è un’assunzione di responsabilità, e il leggere una storia rimane una delle più efficaci e significative pratiche di cura all’interno della relazione educativa.

Lavorare sulla voce

In un certo senso, dunque, lavorare sulla lettura a voce alta è, sempre e per prima cosa, lavorare sulla voce. La voce non deve essere impostata. La voce non deve possedere un ritmo pre-costruito; non deve anticipare ciò che accade nel testo; non deve sottostare a un flusso melodico che richiami una morale, o un ammonimento, o una rivelazione. In tutti i casi in cui nella voce balena una “spiegazione” del senso del testo, la voce tradisce il testo perché lo veste di qualcosa che, nel testo, non c’è.

Per come la voce si impone sul testo, essa svela molto sulla posizione del lettore, e finché la voce farà questo lavoro qui, di dire molto del lettore e di dire poco del testo, farà un cattivo lavoro. Bisogna dunque  far cadere tutte le caratteristiche precostituite della voce del lettore. Quando il lettore scompare, quando la voce è viva e vera e sola, inferendo in modo autentico con il testo, allora inizia il suo ufficio a favore del testo, ed è lì che inizia l’impegno vero sulla composizione testuale, sullo spartito del testo, come lo chiama Maurizio Della Casa.

Per lavorare su questa consapevolezza, non basta leggere, bisogna anche scrivere, scrivere molto, diversi tipi di testi, e abituarsi alla gerarchia della sintassi e alla fatica, alla grande fatica della sintassi che costruisce il pensiero e viceversa.
Non ci si può fermare a dire che per scrivere bene bisogna leggere tanto, bisogna anche cogliere l’effettiva importanza dell’esercizio della scrittura nell’apprendimento dell’atto di lettura.

I bambini che leggono se stessi

Infine, vi è un ultimo aspetto che pesa sulla lettura a voce alta quando essa riguardi testi emozionali letti dai bambini e dai ragazzi in performance pubbliche e, più nello specifico, a teatro.

Da quando ho iniziato a lavorare sulla lingua dei bambini e dei ragazzi e a organizzare letture pubbliche dei testi da loro scritti, circa dieci anni fa o qualcosa di più, ho scelto di non dare mai in lettura un testo al suo autore. Lavorando alla scrittura emozionale, il cuore dei testi riguarda molto spesso un vissuto fatto di percorsi emotivi importanti.
Un bambino che legga a voce alta in classe il proprio testo può essere che si commuova: è naturale, talvolta addirittura necessario: le parole risalgono una corrente di affetti, di emotività profonda che deve trovare il proprio spazio di apertura.
Ma la lettura a teatro ha una prossemica e una cronemica molto diverse; la lettura a teatro è, per prima cosa, una lettura per un pubblico che non è in nessun modo assimilabile all’uditorio costituito dai compagni di classe.
Per seconda cosa, la lettura a teatro privilegia l’esistenza del testo in quanto tale, dando alla voce un cono di luce, una postura, uno spazio che accoglie e magnifica quella stessa voce, dentro un ambiente che non ha nulla a che fare con il perimetro conosciuto e consueto delle mura della classe.
Il palcoscenico, la platea, l’acustica amplificata, le luci, mettono in scena, letteralmente, una esperienza radicalmente diversa della lettura a viva voce, qualcosa di assolutamente inedito rispetto alla lettura svolta in classe. Lì dentro, Luca, poniamo, è Luca che si alza in piedi e legge il proprio testo; tutti i compagni sanno di chi si tratta, intuiscono oppure sanno già perfettamente di cosa si tratta, perché Luca ciò che ha scritto potrebbe averlo già raccontato in altre circostanze; anche se fossero contenuti di cui nessuno sapeva niente, l’identità del lettore, l’accumulo di caratteristiche personali che fanno di quel bambino, il bambino Luca, sostanzia l’identità del testo tout court.

Inoltre, essere su un palcoscenico, davanti a un microfono, con una luce puntata addosso e la platea nel buio, in ascolto, potrebbe avere due conseguenze su Luca: o una amplificazione dell’emotività tirata verso il basso, a una maggiore e più profonda serietà che sfocia in una commozione anch’essa amplificata (con conseguente spezzatura del testo e compromissione del ritmo di lettura); oppure una modificazione emotiva tirata verso l’alto per nervosismo ed eccitazione momentanea dovuta all’apparecchiatura teatrale, che sfocia in una lettura velocizzata e alleggerita del testo. In entrambi i casi, la presenza di Luca in quanto autore del testo non avrebbe fatto un bel servizio al testo.

Capire questa dinamica (a meno che non siate alla ricerca della lacrima come crescita emotiva individuale, tanto più radicale quanto più esibita, in tal caso mi arrendo), può essere d’aiuto per osservare con metodo l’atto del leggere a voce alta, il senso della composizione del testo, la nuova significazione del tempo e dello spazio che sono in atto durante la lettura a voce alta.

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